Il Tempio della Ninfa

Leggende del Lago d'Orta. I Fiori delle Dodici Fate

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Inviato da Violet 29 Set 2019 - 04:06

Rossi, arancione, gialli, rosa, lilla, violetti, azzurri, turchini gli ampi petali di quei fiori, con gradazioni di tinte, striature, puntini, macchie, a volte ondulati ed accartocciati, a volte distesi come ali di fantastiche farfalle. Così strani, appariscenti, profumati, sulle rive del lago d’Orta non ne sbocciavano, e neanche sulle pendici intorno, eppure ogni mattina dodici ragazze, svegliandosi, ne trovavano un mazzo fresco sul davanzale e si allietavano del discreto omaggio di un ammiratore che non si palesava.




Erano le fanciulle più belle del paese, le più amabili e gentili. Si svegliavano ogni mattina, una dopo l’altra, e scostando le candide tendine della loro finestra li trovavano lì ad attenderle. Quei fiori erano belli come non ne avevano mai visti, e il loro profumo le inebriava a tal punto che non potevano fare a meno di gioirne.
Chiunque li donasse loro non poteva essere una persona come tutte le altre, ma se le fanciulle ne provavano piacere, i loro fidanzati erano oltremodo contrariati.
Uno di loro in particolare non riusciva proprio ad accettare la situazione, e volle scoprire chi corteggiava così assiduamente la sua innamorata. Così una sera si nascose dietro un cespuglio, proprio davanti alla finestra oltre la quale la ragazza dormiva beata, e attese fino a mezzanotte. Ma non vide nessuno, e la mattina seguente i fiori erano lì.
La notte seguente decise di ritentare, e aspettò nel suo nascondiglio fino alle tre, ma non accadde nulla, e alle prime luci dell’alba i fiori erano ancora lì.
La terza notte il giovane, indispettito, si infilò nella siepe e decise che non si sarebbe mosso da lì fino al sorgere del sole. E finalmente qualcosa accadde. Quando la notte non è più notte e il giorno non è ancora cominciato una diafana figura giunse camminando lesta e silenziosa dalla riva del lago, si avvicinò furtiva alla finestra, si fermò per qualche istante e depose i fiori sul davanzale, sparendo subito dopo fra le ultime ombre della notte. Era una Fata.
Il giovane si tranquillizzò e rise della sua insensata gelosia, poi tornò a casa e si infilò nel letto. Ma il sonno tardava a venire, perché non poteva fare a meno di pensare ai magici fiori, e a quanto gli sarebbe piaciuto portarli lui stesso alla sua amata. Così rifletté e rimuginò finché gli venne un’idea, e solo allora si addormentò felice.
La notte seguente si recò al lago e, trovata una barca abbandonata, si acquattò sul fondo e attese. Le piccole onde smuovevano la ghiaia e lambivano i fianchi dell’imbarcazione, provocando un leggero sciacquio, e nel buio del lago e delle montagne solo le stelle brillavano tremolanti nel cielo.
Non seppe per quanto tempo aspettò, sdraiato sull’umido legno, ma ad un certo punto scorse un movimento fra le ombre e si ritrasse ancora di più per non essere visto. La prima Fata raggiunse la barca e vi salì, sedendosi sul sedile di poppa, poi giunsero le altre, che senza proferir parola si accomodarono ognuna al proprio posto.
Quando ci furono tutte, una di loro comandò alla barca: “Vada per dodici”. Ma la barca non si mosse.
Il giovane trattenne il respiro, sudando freddo per il terrore di essere scoperto, ma dopo una breve attesa, la stessa voce comandò: “Vada per quanti siamo.”
Senza che qualcuno remasse, la barca si staccò dalla riva, ruotò lentamente volgendo la prua verso il largo e scivolò leggera sull’acqua. Navigò veloce, sempre più veloce, passando accanto alle nere montagne, e ad un tratto si sollevò dalla superficie del lago e si librò in aria, volando alta nel cielo fino quasi a toccare le stelle.
Il ragazzo non aveva paura, ma non osò alzare la testa per guardarsi intorno, e per tutto il tragitto tenne gli occhi chiusi. Di lì a poco sentì di nuovo il rumore dell’acqua, e la barca riprese a sfiorarla, sfregando poi sulla sabbia di una sponda sconosciuta, dove si fermò.
Sollevando finalmente la testa, il giovane vide che si trovavano su una splendida isola, illuminata da un bagliore lieve che sembrava emanare dalla terra stessa e piena di quei magnifici fiori che ben conosceva.
Le Fate scesero una a una e cominciarono a raccoglierli, sorridendo fra loro e scegliendo i più belli da donare alle loro protette, e anche il ragazzo scese e, rimanendo ben nascosto, ne raccolse qualcuno. Ritornato nel suo rifugio, aspettò che le Fate tornassero e non appena furono tutte accomodate, una di loro comandò di nuovo alla barca di partire, e questa riprese a navigare, poi a volare, e infine tornò alle acque del lago d’Orta, fermandosi nel punto da cui era partita.
Quando rimase vuota, il giovane balzò sulla ghiaia e corse dalla sua fidanzata con i fiori stretti in mano. Giunto davanti alla sua finestra, bussò lievemente ai vetri. La fanciulla era sveglia, scostò appena le tendine e gli aprì. Vedendo i magici fiori che il fidanzato le porgeva insieme a un bacio, quasi non credette ai propri occhi. Ma non ebbe il tempo di chiedergli come avesse fatto a trovarli, poiché in pochi istanti persero colore, forma e profumo, e si trasformarono in un groviglio di sterpi secche.
Colti da mani profane non potevano sopravvivere, poiché solo le Fate e le loro prescelte possono toccare ciò che proviene dal mondo ultraterreno, mantenendolo in vita.


Nota:

La leggenda, qui rinarrata dall'autrice con fedeltà all’originale, venne pubblicata col titolo I fiori tropicali nel 1959 da Aurelio Garobbio, nel suo Leggende delle Alpi Lepontine, Cappelli Editore, Rocca San Casciano, pagg. 15-19; e ripresa in seguito da Alberta Dalbosco e Carla Brughi in Entità Fatate della Padania, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1993, pagg. 29-31.
La citazione all’inizio del testo è tratta da Aurelio Garobbio, op. cit., pag. 15.

Una variante di questa leggenda vuole che le misteriose benefattrici non siano fate ma streghe, che salpando con la loro navicella sul lago d’Orta partendo da Omegna, si recano in paesi definiti caldi e tropicali – a simboleggiare un luogo lontano, diverso da quello consueto e irraggiungibile per i comuni mortali – nei quali colgono in gran quantità i loro magici fiori. Invece di donarli alle fanciulle, però, le streghe li portano sulle Alpi, spargendoli fra le valli e le montagne e unendoli alla flora alpina.
Secondo un’altra versione, invece, le streghe non sarebbero dodici, ma tredici, e si dice che fossero solite portare alcuni di quei fiori esotici anche in chiesa. In questa storia, a seguirle nella loro navigazione notturna è il giovane sacrestano, che stupito di trovare ogni mattina quello strano mazzolino, si ferma in chiesa durante la notte per scoprire chi sia a lasciarlo. Allorché vede le diafane donne, decide di seguirle, e la notte successiva si nasconde sul fondo della loro barca.
Prima di partire, [le streghe] fecero una specie di appello, ed essendo tredici, la loro condottiera disse: vada per tredici, ma a quelle parole la barca non si mosse, allora essa soggiunse ancora: vada per quanti siamo, e la barca prese a andare sul lago.
Giunti a destinazione, le dame scendono a cogliere i bei fiori, e anche il ragazzo può coglierne un mazzo. Ma tornato in Omegna, è costretto dagli amici a gettarli, poiché ritenuti stregati.
(Cfr. Maria Savi Lopez, Leggende delle Alpi, Editrice il Punto, Torino, 2007, pagg. 275-276)


Bibliografia

Dalbosco Alberta e Brughi Carla, Entità Fatate della Padania, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1993
Garobbio Aurelio, Leggende delle Alpi Lepontine, Cappelli Editore, Rocca San Casciano, 1959
Savi Lopez Maria, Leggende delle Alpi, Editrice il Punto, Torino, 2007


Rinarrazione e nota di Laura Violet Rimola. Nessuna parte di questo articolo può essere riprodotta o utilizzata in alcun modo e con alcun mezzo senza il permesso scritto dell'autrice e senza citare la fonte.




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