Il Tempio della Ninfa

Hertha, Madre Terra

Articoli / Canti
Inviato da Alessandro 31 Gen 2015 - 23:12

Introduzione

Protetti da fiumi e foreste, vivevano gli uni accanto agli altri alcuni popoli germanici, i Langobardi, poco numerosi ma tanto audaci e bellicosi da essersi difesi contro numerosi popoli potenti, e i Reudigni, gli Avioni, gli Angli, i Varini, gli Eudosi, i Suarini e i Vuitoni, tutti accomunati dal culto di Hertha, la Madre Terra, della quale essi credevano che intervenisse nelle vicende umane e che si recasse con il suo carro a visitarli e a giudicarli.

In un’isola dell’Oceano esisteva un bosco sacro e inviolato in cui era custodito un carro consacrato coperto da un drappo, che poteva essere toccato soltanto dal sacerdote. Questi percepiva l’appressarsi della Dèa e la sua presenza nei penetrali, e con profonda venerazione la scortava durante il viaggio a bordo del suo carro trainato da vacche. Allora erano giorni gioiosi e si festeggiava ovunque ella si degnasse di arrivare e di albergare. Non ci si accingeva alla guerra, non si impugnavano armi, tutte le lame erano riposte in luogo chiuso. Soltanto allora la pace e la quiete erano conosciute, soltanto allora erano amate, finché il sacerdote riconduceva al tempio la Dèa, sazia della compagnia dei mortali. In seguito il carro, il drappo e la Dèa stessa erano purificati con l’abluzione in un lago segreto e nascosto, e subito dopo gli schiavi preposti a tale servizio erano inghiottiti dalle acque. Da ciò derivavano il terrore e la pia ignoranza dell’arcano che soltanto coloro che erano in procinto di perire potevano vedere.

La Dèa dell’isola, del bosco, del lago e del carro è la Madre che genera, abbondante di vita, elargitrice di frutta. Il suo nome, Hertha, o Erda, significa Terra. Nei manoscritti che tramandano la descrizione del culto con cui era venerata, attribuita allo storico romano Tacito, esso ha forme diverse: Nerthum, Nertum, Neithum, Nehertum, Necthum, Herthum, e Verthum. Oggi gli studiosi tendono a ritenere che la forma corretta sia Nerthum, Nerthus, Nerto. Comunque la Madre Terra aveva molti nomi e molte forme. Il mito, la poesia, la leggenda e la fiaba cantano e narrano anche di Nirdu, di Gaue, di Firgunia, di Hluodana, di Erce o Eorce, di Herke o Harke, di Berchta o Perchta, di Holda o Holle. E queste Donne Soprannaturali, Holda, Berchta, Harke, Gaue, sono pressoché identiche a Hertha, o Nerthus.

Su un’isola, in un bosco, in un lago, Hertha dimora nelle profondità, remota dal consorzio umano, isolata. È una divinità della vegetazione e delle acque. In inverno, con un carro, in corteo, compie un periplo nel territorio umano, visita le case, accetta doni, giudica, poi ritorna alla sua isola, al suo bosco, al suo lago, s’immerge nelle acque e scompare. In tutto questo, Holle e Perchta le sono affini.

Spiriti delle foreste e della Natura selvaggia, Perchta e Holle dimorano lontano dalla società umana. Perchta vive nelle foreste e abita una grotta. Holle vive sulle montagne, dimora oltre le profondità di una fonte, o in un monte o in un lago, e provoca il cadere della neve e l’addensarsi della nebbia. Entrambe sono vergini. Entrambe viaggiano a bordo di un carro. Entrambe possono apparire vecchie e brutte, oppure giovani e belle. Talvolta Perchta si mostra alta e maestosa, velata e abbigliata di bianco, presso un crocevia. Talvolta Holle compare a mezzogiorno, come bella Dama Bianca, e s’immerge nel suo lago, dove poi scompare.

Nella stagione invernale, soprattutto a mezzo inverno, fra Natale e l’Epifania, in particolare la vigilia di Natale e quella dell’Epifania, Holle e Perchta visitano le case degli umani, e se le trovano pulite e ordinate, ricompensano le massaie e le loro famiglie. Accettano il cibo offerto loro in dono. Impongono il divieto di filare nei Dodici Giorni. Puniscono le filatrici negligenti e ricompensano quelle che hanno completato il lavoro nel periodo stabilito. Analogamente puniscono o ricompensano i bambini per il loro comportamento. Possono determinare la fertilità umana e animale, la prosperità dei campi, delle greggi e delle mandrie, la salute e il benessere della famiglia. Possono punire o ricompensare determinando la fortuna o la sfortuna per l’anno a venire, la prosperità, la felicità e la salute, oppure il loro contrario. In loro nome erano celebrati i riti legati ai cicli stagionali, all’agricoltura e all’allevamento, alle loro fasi e ai loro strumenti. Nelle Dodici Notti, con il loro corteo fragoroso di spiriti umani e animali, corrono o volano per le foreste, per i campi, per le valli e per le strade dei villaggi. È il corteo che si diceva guidato anche da Diana, da Erodiade, da Abundia, e ricorda la processione di Hertha, seguita dal popolo gaudente nel tempo della festa.

La dimora in un monte, in una grotta o in un lago, il duplice aspetto di vecchia e di giovane, l’abluzione, l’associazione con la Dama Bianca e con il lago, la verginità, il potere sugli elementi atmosferici, e altre caratteristiche ancora, rivelano una profonda affinità di Holle e di Perchta con la Cailleach della tradizione irlandese e scozzese. Un’analoga affinità con la Gyre Carlin, aspetto della Cailleach nella tradizione scozzese, è testimoniata dalle visite alle case degli umani nelle notti sacre e magiche dell’inverno, dalle offerte di cibo, dalla vigilanza sulla filatura, dalle scorribande con il corteo notturno, dal potere sugli elementi atmosferici. Tutte queste caratteristiche si trovano anche nelle tradizioni italiane delle regioni alpine e di quella che in epoca preromana fu Gallia Cisalpina, suggerendo un’affinità fra le tradizioni celtiche, italiche e germaniche, le cui radici comuni affondano forse nella più remota preistoria europea. È così possibile immaginare che tutti questi miti, canti e leggende, fiabe, riti, usanze e tradizioni, siano vaghi ricordi e riflessi degli incontri avvenuti in epoche arcaiche con la Madre Terra, di cui nel XIX secolo, ispirato da questi frammenti, un grande poeta, che la chiamava Madre di Tutto, ha ravvivato il ricordo, permettendoci di ritrovarla e indicandoci come traccia uno dei suoi nomi: Hertha.

Alessandro Zabini
Bologna, Gennaio 2015


***

Algernon Charles Swinburne
HERTHA

(Traduzione di Alessandro Zabini)

Io sono ciò che incominciò;
Da me e per me scaturiscono gli anni;
Da me e per me Dio e l’uomo;
Io sono uguale e completa;
Dio muta, e l’uomo, e la forma del corpo di entrambi;
Io sono l’anima.

Prima che mai la terra fosse,
Prima che mai fosse il mare,
O la morbida chioma dell’erba,
O le belle membra dell’albero,
O la frutta color carne dei miei rami, io ero, e la tua anima era in me.

La prima vita sulle mie fonti
Prima di ogni cosa ondeggiò e nuotò;
Da me scaturiscono le forze
Che la salvano oppure la dannano;
Da me scaturiscono uomo e donna, e bestia selvaggia e uccello; prima che Dio fosse, io ero.

Accanto o sopra di me
Nulla esiste ove ci si possa recare;
Amami o non amarmi,
Non conoscermi o conoscimi,
Io sono ciò che non mi ama e mi ama; io sono percossa e sono il colpo.

Io il bersaglio centrato
E le frecce che mancano,
Io la bocca baciata
E il respiro nel bacio,
La ricerca, e il trovato e il cercatore, l’anima e il corpo che è.

Io sono ciò che benedice
Il mio spirito esultante;
Ciò che accarezza
Con mani increate
Le mie membra inconcepite che misurano la lunghezza della misura del fato.

Ma cosa fai tu ora,
Guardando verso Dio, per gridare
«Io sono io, tu sei tu,
Io sono in basso, tu sei in alto»?
Io sono te, colei che tu hai cercato per trovare lui; e trovare soltanto te stesso, tu sei me.

Io la venatura e il solco,
La zolla spezzata dall’aratro
E il vomere affondato,
Il germe e la piota,
L’impresa e chi la compie, il seme e il seminatore, la polvere ch’è Dio.

Hai compreso come ti modellai,
Figlio, nel sottosuolo?
Fuoco che t’infuse passione,
Ferro che vincolò,
Vaghi mutamenti d’acqua, quale cosa fra tutte queste conoscesti o trovasti?

Non puoi dire nel tuo cuore
Di avere visto con i tuoi occhi
Con quale artificio d’arte
Tu sia stato conformato in quale guisa,
Da quale forza di quale materia tu sia stato modellato, e mostrato sul mio petto ai cieli?

Chi ti ha donato, chi ti ha venduto,
Conoscenza di me?
Forse la foresta te l’ha rivelata?
L’hai forse appresa dal mare?
Hai forse comunicato in ispirito con la notte? Forse i venti si sono consigliati con te?

Ho forse collocato una stella tale
Da mostrare la luce sulla tua fronte
In modo tale che tu abbia visto di lontano
Ciò che ti mostro ora?
Avete forse conversato insieme come fratelli, il sole e i monti e tu?

Cos’è qui, lo sai forse?
Cos’era, l’hai saputo?
Né poeta né profeta
Né tripode né trono
Né spirito né carne possono creare risposta, ma unicamente tua madre, sola.

Madre, non creatrice,
Nata, non creata;
Anche se i suoi figli l’hanno abbandonata,
Allettati o spaventati,
Pregando preghiere al Dio da loro stessi modellato, lei non si commuove per tutti coloro che hanno pregato.

Un credo è un bastone,
E una corona è della notte;
Ma questa cosa è Dio,
Essere uomo con la tua potenza,
Crescere retto nella forza del tuo spirito, e vivere la tua vita come la luce.

Io sono in te per salvarti,
Come dice in te la mia anima;
Dona tu come io dono a te,
Il tuo sangue vitale e il tuo respiro,
Verdi foglie del tuo travaglio, bianchi fiori del tuo pensiero, e rosse frutta della tua morte.

Che i modi del tuo donare
Siano come i miei lo sono stati per te;
La vita libera del tuo vivere,
Ne sia il dono, libero;
Non come servo a signore, non come padrone a schiavo, tu donerai te stesso a me.

O figli del ripudio,
Anime ottenebrate,
Se le luci che vedete svanire fossero destinate
A durare in eterno,
Non riconoscereste il sole che fulgido illumina le ombre e le stelle passate.

Io che ho visto dove avete camminato
Sui vaghi sentieri della notte
Ho collocato l’ombra chiamata Dio
Nei vostri cieli a diffondere luce;
Ma il mattino dell’umanità è sorto, e l’anima senza ombre è visibile.

L’albero dalle numerose radici
Che si dilata sino al cielo
Con fronde dalle frutta rosse,
L’albero della vita sono io;
Nelle gemme delle vostre vite è la linfa delle mie foglie: voi vivrete e non morirete.

Ma gli Dèi di vostra creazione
Che prendono e non donano,
Nella loro compassione e passione,
Che strazia e assolve,
Sono i parassiti generati nella scorza che si stacca; essi moriranno e non vivranno.

Il mio sangue è ciò che stagna
Le ferite nella mia scorza;
Stelle intrappolate nei miei rami
Fanno giorno della tenebra,
E sono venerate come soli sin quando il sorgere del sole calpesterà e spegnerà i loro fuochi come una favilla.

Dove si celano le epoche morte sotto
Le radici vive dell’albero,
Nella mia tenebra il tuono
Fa di me il suo discorso;
Nel fragore delle mie fronde sferzanti odi il risuonare delle onde del mare.

Questo rumore è del Tempo,
Mentre le sue penne si allargano
E i suoi piedi si dispongono ad arrampicare
Fra i rami sovrastanti,
E le mie fronde lo avvolgono e frusciano, e i rami si flettono al suo passo.

I venti tempestosi delle epoche
Soffiano attraverso me e cessano,
Il vento guerresco che infuria,
Il vento primaverile di pace,
Prima che il loro respiro arruffi le mie trecce, prima che uno dei miei fiori cresca.

Tutti i suoni di tutti i mutamenti,
Tutte le ombre e le luci
Sulle catene montuose del mondo
E le cime solcate dai torrenti,
La cui lingua è la lingua del vento e linguaggio di nubi tempestose sulle notti che squassano la terra;

Tutte le forme di tutti i volti,
Tutte le opere di tutte le mani
Negli inesplorabili luoghi
Delle terre percosse dal tempo,
Tutta la vita e tutta la morte, e tutti i regni e tutte le rovine, precipitano attraverso me come sabbie.

Quantunque doloroso sia il mio fardello
E più di quanto tu sappia,
E la mia crescita non abbia ricompensa
Se non soltanto il crescere,
Eppure io non manco di crescere per le folgori al di sopra di me o i parassiti mortali al di sotto.

Anche costoro hanno parte in me,
Come anch’io in costoro;
Un tale fuoco è nel mio intimo,
Questa linfa è quella di quest’albero,
Che in esso ha tutti i suoni e tutti i segreti di terre e di mari infiniti.

Nelle ore tinte di primavera
In cui la mia mente era come quella di Maggio,
Allora da me sbocciarono fiori
Per centurie di giorni,
Fiori vigorosi con profumo di umanità, lanciati dal mio spirito come raggi.

E il suono del loro erompere
E la fragranza dei loro rami novelli
Erano come calore e dolce cantare
E vigore per le mie radici;
E le vite dei miei figli rese perfette con libertà d’anima erano i miei frutti.

Vi chiedo null’altro che di essere;
Non ho bisogno di nessuna preghiera;
Ho bisogno che voi siate liberi
Come le vostre bocche della mia aria;
Che il mio cuore possa essere più grande entro di me, ammirare le mie belle frutta.

Più bella che strana è la frutta
Delle fedi che sposate;
Soltanto in me è la radice
Che fiorisce nei vostri rami;
Guardate ora il vostro Dio che voi stessi avete creato, per nutrirlo con la fede dei vostri voti.

Nell’annerire e nell’imbianchire
Abissi adorati,
Con giorni di primavera e folgore
Per lampada e per spada,
Dio tuona nel cielo, e i suoi angeli sono rossi del furore del Signore.

O figli miei, o troppo ubbidienti
Verso Numi non miei,
Non ero forse abbastanza bella?
Era dunque arduo essere liberi?
Perché, guardate, io sono con voi, sono in voi e di voi; guardate, ora, e vedete.

Guardate, alato dei prodigi del mondo,
Ferrato di miracoli,
Con i fuochi dei suoi tuoni
Per veste e per strumento,
Dio trema in cielo, e i suoi angeli sono bianchi con il terrore di Dio.

Perché il suo crepuscolo giunge su di lui,
La sua angoscia è qui;
E i suoi spiriti lo fissano ammutoliti,
Ingrigiti dalla sua paura;
E la sua ora lo afferra, percosso, ultimo dei suoi anni infiniti.

Il pensiero lo ha creato e lo spezza,
Verità uccide e assolve;
Ma per te, mentre il tempo lo afferra,
Offre questa cosa nuova,
Persino amore, l’amata Repubblica, che si nutre di libertà e di vite.

Perché la verità soltanto è viva,
La verità soltanto è intera,
E l’amore ch’essa dona,
La stella polare e il polo dell’uomo;
Pulsazione del mio centro, l’uomo, e frutto del mio corpo, e seme della mia anima.

Dal mio ventre una nascita;
Dal mio occhio un raggio;
Un fiore supremo
Che scala il cielo;
L’uomo, uguale e uno con me, l’uomo che è fatto di me, l’uomo che è me.
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Testo originale

Algernon Charles Swinburne
HERTHA

I am that which began;
Out of me the years roll;
Out of me God and man;
I am equal and whole;
God changes, and man, and the form of them bodily; I am the soul.

Before ever land was,
Before ever the sea,
Or soft hair of the grass,
Or fair limbs of the tree,
Or the flesh-coloured fruit of my branches, I was, and thy soul was in me.

First life on my sources
First drifted and swam;
Out of me are the forces
That save it or damn;
Out of me man and woman, and wild-beast and bird; before God was, I am.

Beside or above me
Nought is there to go;
Love or unlove me,
Unknow me or know,
I am that which unloves me and loves; I am stricken, and I am the blow.

I the mark that is missed
And the arrows that miss,
I the mouth that is kissed
And the breath in the kiss,
The search, and the sought, and the seeker, the soul and the body that is.

I am that thing which blesses
My spirit elate;
That which caresses
With hands uncreate
My limbs unbegotten that measure the length of the measure of fate.

But what thing dost thou now,
Looking Godward, to cry
"I am I, thou art thou,
I am low, thou art high"?
I am thou, whom thou seekest to find him; find thou but thyself, thou art I.

I the grain and the furrow,
The plough-cloven clod
And the ploughshare drawn thorough,
The germ and the sod,
The deed and the doer, the seed and the sower, the dust which is God.

Hast thou known how I fashioned thee,
Child, underground?
Fire that impassioned thee,
Iron that bound,
Dim changes of water, what thing of all these hast thou known of or found?

Canst thou say in thine heart
Thou hast seen with thine eyes
With what cunning of art
Thou wast wrought in what wise,
By what force of what stuff thou wast shapen, and shown on my breast to the skies?

Who hath given, who hath sold it thee,
Knowledge of me?
Hath the wilderness told it thee?
Hast thou learnt of the sea?
Hast thou communed in spirit with night? have the winds taken counsel with thee?

Have I set such a star
To show light on thy brow
That thou sawest from afar
What I show to thee now?
Have ye spoken as brethren together, the sun and the mountains and thou?

What is here, dost thou know it?
What was, hast thou known?
Prophet nor poet
Nor tripod nor throne
Nor spirit nor flesh can make answer, but only thy mother alone.

Mother, not maker,
Born, and not made;
Though her children forsake her,
Allured or afraid,
Praying prayers to the God of their fashion, she stirs not for all that have prayed.

A creed is a rod,
And a crown is of night;
But this thing is God,
To be man with thy might,
To grow straight in the strength of thy spirit, and live out thy life as the light.

I am in thee to save thee,
As my soul in thee saith;
Give thou as I gave thee,
Thy life-blood and breath,
Green leaves of thy labour, white flowers of thy thought, and red fruit of thy death.

Be the ways of thy giving
As mine were to thee;
The free life of thy living,
Be the gift of it free;
Not as servant to lord, nor as master to slave, shalt thou give thee to me.

O children of banishment,
Souls overcast,
Were the lights ye see vanish meant
Alway to last,
Ye would know not the sun overshining the shadows and stars overpast.

I that saw where ye trod
The dim paths of the night
Set the shadow called God
In your skies to give light;
But the morning of manhood is risen, and the shadowless soul is in sight.

The tree many-rooted
That swells to the sky
With frondage red-fruited,
The life-tree am I;
In the buds of your lives is the sap of my leaves: ye shall live and not die.

But the Gods of your fashion
That take and that give,
In their pity and passion
That scourge and forgive,
They are worms that are bred in the bark that falls off; they shall die and not live.

My own blood is what stanches
The wounds in my bark;
Stars caught in my branches
Make day of the dark,
And are worshipped as suns till the sunrise shall tread out their fires as a spark.

Where dead ages hide under
The live roots of the tree,
In my darkness the thunder
Makes utterance of me;
In the clash of my boughs with each other ye hear the waves sound of the sea.

That noise is of Time,
As his feathers are spread
And his feet set to climb
Through the boughs overhead,
And my foliage rings round him and rustles, and branches are bent with his tread.

The storm-winds of ages
Blow through me and cease,
The war-wind that rages,
The spring-wind of peace,
Ere the breath of them roughen my tresses, ere one of my blossoms increase.

All sounds of all changes,
All shadows and lights
On the world's mountain-ranges
And stream-riven heights,
Whose tongue is the wind's tongue and language of storm-clouds on earth-shaking nights;

All forms of all faces,
All works of all hands
In unsearchable places
Of time-stricken lands,
All death and all life, and all reigns and all ruins, drop through me as sands.

Though sore be my burden
And more than ye know,
And my growth have no guerdon
But only to grow,
Yet I fail not of growing for lightnings above me or deathworms below.

These too have their part in me,
As I too in these;
Such fire is at heart in me,
Such sap is this tree's,
Which hath in it all sounds and all secrets of infinite lands and of seas.

In the spring-coloured hours
When my mind was as May's,
There brake forth of me flowers
By centuries of days,
Strong blossoms with perfume of manhood, shot out from my spirit as rays.

And the sound of them springing
And smell of their shoots
Were as warmth and sweet singing
And strength to my roots;
And the lives of my children made perfect with freedom of soul were my fruits.

I bid you but be;
I have need not of prayer;
I have need of you free
As your mouths of mine air;
That my heart may be greater within me, beholding the fruits of me fair.

More fair than strange fruit is
Of faiths ye espouse;
In me only the root is
That blooms in your boughs;
Behold now your God that ye made you, to feed him with faith of your vows.

In the darkening and whitening
Abysses adored,
With dayspring and lightning
For lamp and for sword,
God thunders in heaven, and his angels are red with the wrath of the Lord.

O my sons, O too dutiful
Toward Gods not of me,
Was not I enough beautiful?
Was it hard to be free?
For behold, I am with you, am in you and of you; look forth now and see.

Lo, winged with world's wonders,
With miracles shod,
With the fires of his thunders
For raiment and rod,
God trembles in heaven, and his angels are white with the terror of God.

For his twilight is come on him,
His anguish is here;
And his spirits gaze dumb on him,
Grown grey from his fear;
And his hour taketh hold on him stricken, the last of his infinite year.

Thought made him and breaks him,
Truth slays and forgives;
But to you, as time takes him,
This new thing it gives,
Even love, the beloved Republic, that feeds upon freedom and lives.

For truth only is living,
Truth only is whole,
And the love of his giving,
Man's polestar and pole;
Man, pulse of my centre, and fruit of my body, and seed of my soul.

One birth of my bosom;
One beam of mine eye;
One topmost blossom
That scales the sky;
Man, equal and one with me, man that is made of me, man that is I.


***

Nota bibliografica

Composta da Algernon Charles Swinburne fra l’autunno del 1869 e l’inverno del 1870, «Hertha» fu pubblicata per la prima volta in «Songs Before Sunrise», di Algernon Charles Swinburne, London, F.S. Ellis, 1871, pp. viii, 287.


Introduzione e traduzione a cura di Alessandro Zabini. Vietata la riproduzione anche parziale senza il permesso dell'autore.




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