Il Tempio della Ninfa

La Donna di Pietra

Articoli / Luoghi
Inviato da Violet 31 Dic 2012 - 04:33

LA DONNA DI PIETRA
da Fiabe e leggende del Cadore, di Luigina Battistutta

Sulla cresta della Rocchetta, percorrendo la strada che costeggia il Boite da San Vito di Cadore in direzione di Cortina, si può distinguere chiaramente il profilo di una donna. Una donna di pietra, distesa, che pare addormentata. Un tempo era una fanciulla in carne ossa, ma non apparteneva alla stirpe degli uomini, bensì a quella dei giganti.

Oggi sono ben pochi i giganti che abitano su queste montagne. Ma, prima che gli uomini costruissero i loro villaggi in fondo alle valli e sulle coste delle montagne, tuttavia, essi erano numerosi e nelle leggende è rimasta ancora qualche traccia della loro storia e delle vicende del loro grande regno.



Tra i giganti-re delle Dolomiti, ce ne fu uno che aveva una figlia bella come una fata, dai lunghi capelli biondi e la pelle candida e diafana come la neve sulle a cime dei monti. Si chiamava Bianca e di lei si diceva fosse anche la donna più saggia di tutto il regno dei giganti. Amava invitare a corte – nel palazzo di suo padre, che si ergeva fiero e massiccio sulle coste del Pomagagnòn – poeti, musici e viaggiatori e si dilettava nell’ascoltare i loro racconti, facendo mille domande.
Ma quello che sopra ogni altra cosa le dava gioia era vagare da sola per i boschi e per le montagne. Conosceva ogni albero, ogni roccia, ogni cespuglio di rododendro nel regno dei giganti e nulla ammirava al mondo più dell’avvicendarsi delle stagioni, con il mutare dell’abito primaverile e autunnale dei larici, dello scorrere ora impetuoso ora pigro dei torrenti, il Boite, il Felizon, il Ru Freddo e gli altri, del colore ora grigio ora azzurro dei laghi.
Aveva fatto amicizia con tutti gli animali dei boschi e, quando usciva per le sue interminabili passeggiate, le aquile scendevano sulla sua spalla per scompigliarle i capelli col becco in segno di amicizia, gli orsi sentivano i suoi passi da lontano e le correvano incontro, si rizzavano sulle zampe posteriori e giocavano con lei, le marmotte uscivano dalle tane e fischiavano per attirare la sua attenzione.
La fanciulla passava ore e ore distesa, sui prati della forcella di Lerosa o sulle cenge più alte delle Tofane, a guardare le nuvole che pigramente scivolavano via nel blu del cielo, le aquile che si lasciavano trasportare dalle correnti con le ali immobili nel vento, i falchi che con grandi giri perlustravano la valle in cerca di prede.
Non c’era profumo del bosco che non riconoscesse: quello pungente e dolce dei ciclamini, quello avvolgente del muschio, l’odore della resina che gocciola lentamente, densamente lungo la corteccia degli abeti, l’odore secco e delicato, quasi impercettibile, delle rocce e dei ghiaioni.
Quando tornava ai casa, il padre a volte la rimproverava: “Ricordati che sei una principessa e, per di più in età da marito. Sprechi il tuo tempo andandotene a zonzo e ascoltando storie strampalate di girovaghi perdigiorno. Ma presto tutto questo finirà, perché ti sceglierò un marito!”.
Questa, fra tutte le ramanzine del padre, la inquietava più di altre: il marito. Tante volte aveva rimuginato sulle vicende che narravano i cantastorie di passaggio al suo castello, e a poco a poco si era convinta che, se si fosse sposata, sarebbe venuto a chiedere la sua mano un principe che, come lei, amava le montagne e i boschi sopra ogni altra cosa. Ai loro bambini, un giorno, avrebbero insegnato insieme a riconoscere dal volo un’aquila da un falco, avrebbero sussurrato in un orecchio i nomi segreti degli alberi e delle erbe, avrebbero spiegato che in un fazzoletto di prato c’è racchiuso tutto un mondo… Ma come poteva essere certa che suo padre, che considerava tutto questo sciocchi giochi di fanciulla, avrebbe scelto per lei il principe giusto?
I timori della bella principessa non erano infondati, perché di lì a pochi mesi il re tornò da un viaggio e la fece chiamare, dicendole che aveva per lei una novità. Era stato in visita al re dei giganti dell’Antelao e si era accordato per concedere a suo figlio, un principe con tutte le carte in regola, la sua mano. La fanciulla cascò dalle nuvole.
“Padre… sono ancora giovane per sposarmi” tentò di opporre alla decisione del re. “E poi, mi piacerebbe conoscere il principe, prima di decidere…”.
“Che fantasie sono queste?” sbottò lui, spazientito. “Non sono forse tuo padre? Credi che ti darei in moglie a uno scavezzacollo qualunque?”.
“Certamente no, padre, ma… ecco…” qui la povera principessa non seppe più cosa dire. Non si azzardò nemmeno a spiegargli che desiderava un fidanzato amante della natura, e il padre subito riprese:
“Verrà qui in visita il mese prossimo e, in quell’occasione, annunceremo il fidanzamento in tutto il regno e daremo una festa come non si ricorda a memoria di gigante”. Tutto preso nei progetti, il re non si accorse nemmeno che gli occhi di sua figlia si erano riempiti di lacrime.
“Ho ancora tutto un mese" si consolò la principessa. “Possono accadere tante cose…”. E di cose, in effetti, ne successero. Ma non quelle che lei sperava. Il principe dell'Antelao arrivò nel tempo stabilito e già al primo sguardo Bianca si rese conto che quel rampollo reale tronfio e arrogante, tutto vanterie e modi affettati, non avrebbe mai potuto capire il suo cuore. Lo accolse freddamente e, lei che era sempre stata così serena e saggia, cominciò a scivolare in una profonda malinconia, alla quale nessuno riusciva a trovare rimedio. Siccome suo padre le aveva proibito di uscire per le montagne, se ne rimaneva seduta in una poltrona, davanti alla finestra della sua stanza, con occhi fissi alle vette del Cristallo, che si coloravano di rosa e di porpora al crepuscolo.
“Appena andrà sposa, la sua tristezza svanirà” diceva il padre.
“Saprò renderla felice e restituirle il buon umore” aggiungeva il fidanzato spavaldo. “Quando vivrà tra le vette dell’Antelao, dimenticherà presto le sue vecchie abitudini e tornerà serena”.
La data delle nozze, perciò, fu presto fissata e quando Bianca venne a sapere che di lì a poche settimane avrebbe dovuto lasciare le sue montagne e le sue valli, e i boschi e i prati che tanto amava, precipitò nella disperazione più cupa.
Una notte di luna piena in cui il Cristallo scintillava come fosse stato ricoperto di diamanti, Bianca decise di uscire a salutare per l’ultima volta i luoghi che amava. Si vestì in fretta, sgusciò fuori senza farsi scorgere dalle dame di compagnia addormentate, che avevano l’incarico di non perderla mai di vista, e si mise a correre lungo i pendii, verso la Valle del Boite. Si fermò a riprendere fiato tra le pietre del torrente, che mormorava sommessamente come se comprendesse il suo dolore, mentre già la notte volgeva al termine e il giorno si affacciava timidamente dietro le creste del Pomagagnòn. Bianca, ad un tratto, udì il rumore degli zoccoli di molti cavalli sulle rocce di un sentiero. Un’aquila, con cui aveva dimestichezza fin da quando era un uccellino appena uscito dal nido, le volò sulla spalla. “Amica” le disse, “tuo padre si è accorto della tua assenza e ti sta cercando. Scappa, presto!”.
La fanciulla si alzò dal prato soffice di muschio e riprese a correre, nella speranza di far perdere le proprie tracce. Ma gli inseguitori si avvicinavano e lei era ormai stanca e senza fiato. Si buttò sull’erba del pianoro in cima alla montagna e, al colmo dell’angoscia, esclamò: “Oh, Rocchetta! In nome della nostra lunga amicizia, per tutte le ore e le giornate che ho passato in tua compagnia, aiutami! Nascondimi, che io non cada nelle mani di chi vuole rinchiudermi in una prigione di pietra dove al posto del cielo sono appesi degli arazzi di seta, dove il chiacchiericcio sciocco delle dame di corte non mi farebbe udire il canto degli uccelli! Morirei certamente!”.
Allora accadde il prodigio. La montagna, che capiva Bianca e le voleva bene, disse una parola. Una sola, lunga parola che rotolò lungo i pendii sassosi e rimbombò nelle gole, riempiendo l’aria come un tuono e facendo franare le cenge più friabili a valle. Era una parola magica e la fanciulla, all’istante, si tramutò in pietra, diventando tutt’uno con la Rocchetta. E non è insensibile o morta, ma al contrario vive e respira con la montagna e, sulle sue labbra, è possibile scorgere un tenue sorriso.






Fonte:

Fiaba tratta da Luigina Battistutta, Fiabe e leggende del Cadore, Editrice Santi Quaranta, 2008, pp. 171-175





Questo articolo è stato inviato da Il Tempio della Ninfa
  http://www.tempiodellaninfa.net/public/

La URL di questo articolo è:
  http://www.tempiodellaninfa.net/public/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=264