Il Tempio della Ninfa

Il Giardino della Strega

Articoli / Archetipi
Inviato da Alessandro 13 Ott 2010 - 03:59

Anche se il suo ricordo non è del tutto perduto, la Strega, appartata e nascosta come la Dèa di cui è figlia, non ha libri. La sua voce è spenta nel silenzio. La sua storia è costellazione di frammenti in una Notte di quiete e di brume. È stata sempre nel tempo e fuori del tempo, sempre Qui, nel mondo, e sempre Altrove. Così è fuori del tempo che forse la si può cercare, e forse persino intravedere nel suo Giardino segreto, con il suo canestro, mentre esercita i suoi poteri: fuori del tempo, nella leggenda e nel Mito, come le Dèe di cui era Figlia e Sacerdotessa.



Nella Luna, nata dalla Notte, il cui ciclo simboleggia il potere di nascere, morire, rinascere, si può riconoscere l’immagine del mistero della vita. Luna era la Dèa Natura, «dèa madre di tutto, madre dalle molte risorse», «fine infinito», padre di se stessa e «senza padre», «di tutto padre, madre, nutrice e allevatrice», «fiorente, intreccio», «impulso delle stagioni», «portatrice di vita, fanciulla» che tutto nutre, «notturna» e «guida», «di tutto sapiente», «del tutto liquida, circolare», in perenne trasformazione (1). Luna era la più antica, Hekate, Colei che appariva nel cielo come carro lunare. Luna era Persefone, che aveva il potere di far crescere, morire e ricrescere le piante, senza cui la vita non è possibile. Alla prima donna, la Donna Arcaica, Figlia della Luna, incarnazione del ciclo e del potere della Madre, Pandora, sorta dal ventre della Terra perché era la Dèa della Terra medesima in forma di Kore, donò da un canestro provvisto di coperchio, esso stesso un dono, le piante commestibili e coltivabili, necessarie alla sopravvivenza, e quelle da cui ricavare fibre per intrecciare panieri e tessuti, nonché, senza dubbio, i semplici, e la loro conoscenza. In un cesto di fibre vegetali li custodiva a sua volta la Figlia della Luna, la Donna Arcaica, la Raccoglitrice, mediatrice con il Numinoso in quanto custode e dispensatrice al genere umano dei doni spontanei del Grembo della Madre Terra, Natura e Luna.

Come Signora delle Piante, «Potnia Phyton», la Dèa Natura, colei «che tiene insieme tutto e fa circolare il grande fuoco» (2), infinita ed eterna, polinomica e multiforme, genera alberi, fiori e frutta in un incessante alternarsi di fertilità e di sterilità, di siccità e d’inondazione, di vita e di morte, intrecciate in un tessuto di Armonia. Nelle continue metamorfosi del mondo vegetale, con gli alberi che si nutrono dell’humus delle loro stesse foglie decomposte, e i funghi che vivono su sostanze organiche morte, per cui dalla morte rinasce incessantemente la vita senza che esista un vero confine fra l’una e l’altra, si osserva il riflesso del potere di morte inseparabile dal potere di vita che è caratteristica della Madre, Terra e Luna, come pure delle sue Figlie e delle sue Sacerdotesse, le Dèe «farmakìdes», o incantatrici: Hekate, Signora di Morte, e le Ninfe lunari, Kirke, Medea, Morgue (3). Attraverso i succhi e gli unguenti preparati con le piante, le erbe, i fiori, le radici, di cui era conoscitrice perfetta, ognuna di esse, Signora della Vita e della Morte, esercitava il proprio potere sul mondo vegetale, animale e umano, restituendo la salute, la giovinezza o la vita, oppure causando la morte. Dominio delle Dèe «farmakìdes» era tutta la Natura, eppure ciascuna aveva un suo «temenos», un suo Giardino, «aiuola nel suo più vasto giardino che è il mondo» (4), sempre nel bosco, in una radura, oppure presso un lago o presso un fiume, e là intesseva indissolubilmente l’Armonia che tutto permeava. Avevano ciascuna un proprio giardino Artemide, Hera e Bona Dea, Feronia, Diana e Flora, Acca Larentia e Marica.

Colei che era lontana, Hekate, forse figlia della Notte, trimorfa e sovrana del mondo infero, esercitava la sua sovranità sul cielo, sulla terra e sul mare. Vagava per le strade nella notte, accompagnata dal latrare dei cani e dalle anime dei morti. Era intrecciata alla vita delle donne e dimorava in solitudine in una grotta. Conosceva le piante, da cui sapeva trarre filtri per guarire, come pure veleni per ammorbare e per uccidere, e aveva un giardino. Era un bosco sacro presso un fiume, ombroso e lussureggiante, in cui erano accolte soltanto le sacerdotesse che avevano compiuto il rito d’iniziazione e che si erano purificate con i sacrifici lustrali. Chiunque altro avesse osato tentare d’invaderlo sarebbe stato cacciato dai suoi cani furenti dagli occhi di fuoco e dalla Dèa medesima, la quale, terrificante a vedersi e terribile a udirsi, scuoteva fiamme di fuoco. Nelle radure erbose e nel prato fiorito all’interno del bosco sacro, in parte composto di cornioli, di allori e di platani, crescevano caprifoglio, aconito, alcea e ciclamino viola, dittamo, croco, asfodelo, adianto e solano, salvia, mandragora, nasturzio, peonia, verbena, camomilla, panacea, papavero nero, e molte altre piante mediche. Al centro del bosco ombroso, in cui si diceva che Hekate medesima vivesse, svettava sino al cielo una quercia antica che gettava all’intorno l’ombra delle sue fronde, e «in una macchia appartata» erano innalzati gli «antichi altari» (5) della Dèa.

Un giardino aveva Persefone nei prati alle soglie dell’Ade su cui volteggiavano gli spettri, i Campi di Asfodelo lussureggianti dei fiori grigi che persino nel mondo infero ritornavano a primavera, come ritornava nel mondo supero la Dèa onnipotente a portare la rinascita. Nel silenzio del prato incantevole—il silenzio che al fermarsi del tempo accompagna la contemplazione degli scogli e dell’oceano nel fragore del vento, della risacca e dei gabbiani, oppure dei fiori nell’ombra del bosco, o fra luce ed ombra sui prati, nel vento, con le cornacchie—fra spighe e fiori sorrideva la Salvatrice, la bellissima Fanciulla dallo sguardo enigmatico, la più potente fra coloro che portavano alto lo scettro, l’unica ad essere vita eterna, la Dèa del riposo, la quale a coloro che varcavano il fiume infero offriva un grigio asfodelo.

Aveva un proprio giardino Calypso, la «dèa luminosa», la «ninfa sovrana» (6), la quale, cantando e tessendo al telaio con la spola d’oro, dimorava insieme alle sue ancelle in un’isola oltre un mare infinito, in una grotta profonda e vasta, in mezzo a un bosco lussureggiante e odoroso di ontani, di pioppi e di cipressi dove nidificavano molti uccelli, e tutt’intorno cresceva una vite domestica, e sgorgavano in fila quattro sorgenti, le cui acque limpide scorrevano in direzioni opposte, e c’erano prati folti, morbidi e roridi di viole e di sedano in fiore: una bellezza che incantava i Numi.

Un proprio giardino aveva Kirke, la Ninfa «riccioli belli» (7), la cui dimora era una casa in pietre lisce «tra i fitti querceti e la macchia» (8) , in un vallone di un’isola oltremondana. Là, fra le belve, cantava e tesseva, assistita dalle sue ancelle, «figlie dei fonti e dei boschi e dei fiumi sacri che scendono al mare» (9). Attraverso le erbe di Hekate (10) e gli unguenti, la «dèa luminosa» (11), «ricca di farmachi» (12), trasformò Scilla e i compagni di Odisseo, esercitando così il potere di mutare una forma nell’altra, equivalente a quello di dare la vita, toglierla e restituirla, perché tutto, non soltanto nel mondo vegetale, è metamorfosi in Natura, grembo di Dèa Madre. Alla «tremenda dèa dalla parola umana» (13) appartenevano anche il potere di avvelenare, quello di ringiovanire e quello di rendersi invisibile, quello d’inviare l’anima in volo nell’aria e quello di dominare le forze naturali: «annebbiare il volto niveo della luna e stendere una coltre di nuvole davanti a quello» (14) del sole, oscurare il cielo, suscitare le nebbie dalla terra, addensarle o diradarle, come avvenne alla sua invocazione di Hekate e dei numi della Notte prima di rapire e di trasformare Pico e i suoi compagni.

Sacerdotessa di Hekate, del cui tempio si occupava per tutto il giorno, era Medea, fanciulla che praticava la magia nel nome di Hekate Perseide, la quale aveva insegnato a lei, «più che ad ogni altro mortale l’arte dei filtri, quanti ne producono la terra e il mare immenso: con essi doma la vampa del fuoco infaticabile, e ferma all’istante il corso dei fragorosi fiumi, incatena le stelle e il sacro cammino della luna» (15). Assistita dalla Notte, «fedele custode di misteri» (16), e da Hekate stessa, la quale assisteva gli incantesimi e l’arte dei maghi, nonché dalla Terra, che ai maghi procurava erbe prodigiose, e anche dai venti, dai monti, dai fiumi, e dai laghi, dai numi dei boschi e della notte, la fanciulla divina poteva ricondurre i fiumi alle sorgenti, suscitare o placare le tempeste sul mare, diradare o addensare le nubi, allontanare o attirare i venti, sradicare massi e boschi, scuotere i monti, trarre muggiti dal suolo, evocare le ombre dai sepolcri, e chiamare a sé la Luna. Con la veste sciolta, i piedi nudi, la testa scoperta, la chioma sparsa sulle spalle, nel silenzio sepolcrale del cuore della notte, quando la Luna era piena e fulgida, Medea vagava sola in una quiete e in una immobilità in cui soltanto le stelle palpitavano, e recideva le piante con lame in bronzo falcate come la Luna. Custodiva in un cestello, ovvero un «talaros», o canestrello, o cofanetto, le erbe e le radici con cui operava i propri prodigi, anche «a distanza, per semplice diffusione delle virtù magiche» (17). Con le sue erbe e con il suo canestro, Medea, «signora dei filtri» (18), guariva dalla follia e dalla vecchiaia, oppure uccideva, o mutava una forma nell’altra, o risanava e restituiva la giovinezza, invocando proprio Persefone e Ade. Disponeva dunque dei poteri di donare la vita, di toglierla e di restituirla, analoghi a quelli di conferire fertilità, sterilità e rinascita al mondo vegetale, riservati a Persefone, Luna.

Come rivela il testo più antico a noi pervenuto che testimonia di lei, era dotata degli stessi poteri e li esercitava attraverso i «farmaka» un’altra Ninfa, un’altra dèa «farmakìs», ovvero Morgue, la cui dimora era Avalon, un Meleto, un Paradiso, un Giardino oltremondano in cui spontaneamente la Natura produceva non soltanto le piante selvatiche, bensì anche il grano, l’uva e ogni altra cosa. Là, bellissima e sapiente, la Fata poteva compiere metamorfosi, come la propria in uccello o quella di Arthur in corvo, e poteva inoltre circondarsi di belve, «allestire filtri e unguenti» (19) e guarire le ferite, giacché conosceva le virtù di tutte le erbe. Dall’Isola Fortunata di cui era sovrana poteva volare ovunque perché conosceva il segreto del volo. Nell’altra sua dimora, un altro giardino, la Val Sans Retour, rapiva e tratteneva gli eroi, come Kirke aveva trattenuto Odisseo e i suoi compagni presso la sua casa, nel vallone sull’isola remota in cui dimorava. La sua solitudine, necessaria alla coltivazione delle erbe e delle piante, non era annullata dalle sue Sorelle, analoghe alle Ninfe di Persefone, di Kirke, di Calypso, e di Medea.
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Delle Streghe si diceva che potessero diffondere malattie, scatenare la tempesta, la grandine e l’uragano, isterilire i campi e distruggere i raccolti, avvelenare il bestiame, creare pozioni e filtri velenosi mediante la conoscenza delle erbe. Erano i poteri distruttivi delle Ninfe, che agli occhi dei cristiani, incapaci di percepire lo spirito se non come dissociato dal corpo e il divino se non come principio maschile astratto, esterno alla Natura, apparivano come demoni orridi e laidi nonostante la loro luminosa bellezza, perché tale bellezza irradiava un fulgore erotico ammaliante e tentatore che le associava al demonio, alla Natura, al corpo e dunque al male. L’intreccio di forme in metamorfosi perenne del mondo vegetale appariva agli occhi dei cristiani come il groviglio orrendo, informe e caotico di tutto ciò che era inumano, demoniaco e malvagio, condannato a dissolversi e ad annientarsi nella putrefazione definitiva. La Natura stessa appariva nemica della specie umana, diabolica e malefica. Sembravano tali anche i poteri sulla Natura che derivavano dalla Natura medesima, dunque erano giudicate maligne sia le donne che li possedevano, sia le loro conoscenze.

Se provocare la grandine o l’uragano poteva distruggere il raccolto, suscitare la pioggia poteva invece accrescere la fertilità dei campi o guarire la siccità, e le erbe potevano risanare oltre che uccidere. Era il potere antico della Dèa Madre, quello di creare, di annientare e di ricreare la vita, di cui però veniva visto e creduto soltanto l’aspetto distruttivo da coloro che, ciechi alla rinascita, sensibili soltanto alla luce innaturale del dominio, della sopraffazione, del possesso, percepivano esclusivamente, e come contrapposti, il potere di creare la vita—usurpato al principio femminile e attribuito al principio maschile mediante il racconto della creazione di Eva, ripugnante rovesciamento della realtà naturale con cui si pretendeva che la donna fosse stata formata dal corpo dell’uomo—e il temuto potere di uccidere, distruggere, isterilire. Non vedevano, non volevano e non potevano vedere, il potere di ridare la vita, di restituire forma umana, di placare la tempesta, di guarire le malattie, cioè i diversi aspetti del potere di rinascita di Persefone. Non vedevano il mistero della vita simboleggiato nel ciclo lunare, incarnato nel ciclo stagionale della Natura e nel ciclo mestruale della Donna, di cui, infatti, avevano ribrezzo e odio. La conoscenza delle piante e delle erbe non poteva essere a loro giudizio se non demoniaca, dunque malvagia, e non poteva produrre se non veleni e mali come quelli che nella deformazione patriarcale del mito erano scaturiti dall’apertura del vaso di Pandora.

Perciò la Strega doveva vivere nascosta e operare in segreto per non essere perseguitata, torturata, bruciata. Doveva persino dissimulare la propria bellezza, perché anche la bellezza era giudicata demoniaca. Doveva custodire in segreto, e tramandare segretamente di madre in figlia, di donna in donna, la conoscenza dei semplici, inclusa quella delle erbe contraccettive e abortive, frutti del Ventre di Madre Natura (20). Anche per questo era considerata malvagia. La sua conoscenza dei semplici era temuta dai maschi e dai preti, i quali, usurpando così il potere di dare la vita che non apparteneva loro né per natura né per diritto, pretendevano che il seme maschile non andasse mai disperso e che le donne fossero sempre incinte, sformate e sfiancate dai parti in successione incessante.

Così la Strega doveva recarsi in segreto nei luoghi più romiti del Bosco, dove ancora dimoravano le Ninfe e dove nessun altro si addentrava, perché tutti avevano orrore e paura della Natura selvaggia. I sentieri che lo attraversavano erano pochi e nessuno li abbandonava mai se non in certi luoghi e in certe occasioni, ad esempio per la caccia, però senza mai avanzare troppo nella selva, dove tutto era spaventoso, incomprensibile, misterioso, o tale appariva ai villici e ai preti, i quali ne avevano terrore. La Strega invece non temeva nulla. Conosceva ogni pianta, ogni cespuglio e ogni sasso nella regione intorno al villaggio in cui abitava. Nell’agile sicurezza del passo, nello sguardo con cui distingueva e riconosceva foglie e fiori, nella gentile abilità dei gesti con cui raccoglieva le erbe, nell’intuito con cui ne individuava le proprietà, riemergeva d’istinto la sapienza perduta delle Donne Arcaiche. Conosceva le abitudini degli animali, di cui sapeva leggere le tracce. Riconosceva ogni albero dallo stormire delle fronde e conosceva i canti di tutti gli uccelli. Imitava le voci di molti di loro e distingueva il frusciare del passaggio di un umano da quello di un altro animale. Gli ululati dei lupi e il miagolare delle linci, i versi delle civette e gli strilli delle vittime dei predatori, spaventevoli alle orecchie dei villici, erano per lei una musica senza cui la foresta sarebbe parsa irreale. Negli intervalli silenziosi erano voci amiche il frusciare delle fronde o lo schioccare di un ramo calpestato, che invece avrebbero angosciato i contadini e i preti, o persino i cacciatori e i soldati. Comprendeva i messaggi degli abitanti della foresta e sapeva percepire le presenze invisibili che la circondavano. Oltre ai sentieri, vedeva le porte nascoste per accedere alle plaghe più segrete e sapeva varcarne le soglie. A lei, che sapeva osservare e ascoltare in armonia, la Natura rivelava i suoi misteri. In lei sopravviveva l’Armonia perduta di un tempo remotissimo, di cui il patriarcato e il cristianesimo avevano tentato di cancellare persino la memoria, senza tuttavia riuscirvi (21).

Proprio dove nessuno, villico, soldato, cacciatore o aristocratico, arrivava mai, e mai sarebbe potuto arrivare, là dove avrebbe dovuto esservi soltanto l’intrico più folto della selva inviolata, là, nutrito dal sole e protetto dall’ombra, nascosto e inaccessibile a chiunque non conoscesse la via segreta per giungervi, prosperava un orto rigoglioso e lussureggiante che nessuno avrebbe saputo distinguere dalla foresta selvaggia. Come dominio delle Dèe «farmakìdes» era la Natura, Dèa Luna, così dominio della Strega era il Bosco, e come ciascuna Dèa aveva un proprio Giardino, aiuola nell’immenso giardino della Natura, così la Strega aveva, aiuola nel vasto giardino del Bosco, un Giardino Segreto, dove coltivava e raccoglieva le erbe con cui preparava i filtri che restituivano alle donne il potere della Dèa di generare senza padre, ovvero una completa autonomia dal maschio, la stessa autonomia sessuale e procreativa che era stata delle Figlie della Luna nell’epoca fuori del tempo dell’Armonia arcaica.

Là, alla luce del plenilunio, forse vestita di cielo, o forse no, poiché non si possono conoscere i modi segreti noti soltanto alle Streghe, ma di certo nei modi necessari e con gesti simili a una danza, la Strega raccoglieva ciò che soltanto lei stessa sapeva riconoscere, quindi riponeva ogni cosa in un canestro, forse provvisto di coperchio, simile a quello in cui Medea aveva custodito le erbe raccolte durante la notte, in attesa di servirsene per compiere i suoi divini prodigi. Proprio perché vi custodiva le erbe magiche, doni di Pandora, esso era simile al cesto della stessa Pandora, come pure alle ceste che forse ne erano derivate (22), e forse conteneva anche i simboli, analoghi a quelli della cista mistica, di un culto semplice, che esigeva pudore insieme alla più completa libertà, e doveva restare segreto, nascosto all’uomo. Forse questo culto includeva riti simili a quelli delle Donne Arcaiche, Figlie della Luna, oppure simili a quelli di Eleusi, in cui era stato onorato il mistero della Vita, mistero divino della Donna. Forse la Strega lo celebrava insieme alle compagne che aveva sempre, sebbene dovesse vivere in solitudine, come Morgue, per coltivare la conoscenza delle piante. Erano sue Sorelle nella magia e nella Dèa, dotate dei suoi stessi poteri.

In certe notti di Luna, nei tempi liminari, in estasi o in sogno, la Strega scendeva al Bosco nelle profondità di se stessa, mutava la propria forma in corvo o cornacchia, gru o gabbiano, oca o cigno, e volava oltre ad incontrare le Sorelle, anch’esse in forma di cornacchie, di oche, di gru, in un Giardino interiore, ipogeo come quello di Persefone, in un Bosco come quello di Hekate, fuori del tempo e dello spazio, ovunque, come le isole delle Ninfe. Era un luogo oltremondano, perché l’Altromondo, come hanno testimoniato i viaggiatori che vi sono giunti, può essere visitato in sogno o in estasi, può essere ipogeo, silvestre o insulare, si trova dovunque, anche nelle profondità interiori di ciascuno, ed è sempre un Giardino, di cui è stata un aspetto la Natura inviolata del Mondo giovane in cui le Figlie della Luna avevano avuto in dono la sapienza delle erbe dal canestro di Pandora.

Là, fuori dello spazio e del tempo, alla luce della Luna, la Strega attende con il suo canestro le Viandanti che hanno intrapreso una Ricerca. La Fanciulla che in sogno o in estasi scende nelle profondità di se stessa può avere la Fortuna di trovarvi il proprio Bosco e persino il sentiero che conduce al Giardino Segreto della Strega, e forse d’incontrarvi la Strega stessa in attesa con il suo canestro. Allora è possibile che la Strega le doni un filtro, oppure che la preceda per un sentiero che conduce a una Fonte abitata dalle Ninfe in cui immergersi, o ancora che la guidi sino a una sponda di lago o di mare, e poi la lasci a proseguire il suo Viaggio, oppure la imbarchi a bordo di un Naviglio Fatato, o voli con lei al di sopra delle onde fino a un’isola che è un Giardino rigoglioso e lussureggiante, dimora di Ninfe bellissime e sapienti, le quali alle loro conocchie e ai loro telai filano il filo e intessono la tela dell’Armonia e del Fato. Cosa avvenga in seguito sull’Isola, alla luce d’argento della Luna, prima del risveglio dal sogno, è un mistero che non è mai stato rivelato.


Note

1. «Inno alla Natura», in «Inni orfici».

2. Ibid.; Kerenyi, «La dea Natura», p. 256.

3. Morgue è la forma più antica del nome della Dèa, o Fata, più comunemente conosciuta come Morgen, Morgain, Morgan, Morgana.

4. Marconi, «Da Circe a Morgana», 106.

5. Ovidio, «Metamorfosi», VII, 74, 95; Apollonio Rodio, «Argonautiche», III, 898; «Argonautiche Orfiche», 894-925.

6. «Odissea», V, 78, 149.

7. Id., X, 543; XI, 8.

8. Id., X, 197.

9. Id., X, 348, 350, 351.

10. «Hecateidos herbae», «Hecateia carmina incantationi» (Ovidio, op. cit., VI, 139).

11. «Odissea», X, 503.

12. Id., X, 276.

13. Id., XI, 8.

14. Ovidio, op. cit., XIV, 365-368, 403-405.

15. Apollonio Rodio, op. cit., III, 251-252, 477-478, 528-533.

16. Ovidio, op. cit., VII, 192.

17. Marconi, op. cit., 77.

18. Apollonio Rodio, op. cit., IV, 1677.

19. Marconi, op. cit., 91, 92.

20. Nei tempi arcaici, la Donna, Figlia di Madre Natura e Madre della specie umana, era stata riconosciuta divina non soltanto per il potere di generare, né soltanto perché l’uomo era stato inconsapevole del contributo del proprio seme al concepimento, bensì perché aveva potuto vivere liberamente la propria sessualità, senza essere oppressa dalla schiavitù delle gravidanze continue o indesiderate, mediante le erbe che impedivano, favorivano o interrompevano la fecondazione o la gravidanza, dono della Dèa Natura, la quale le aveva insegnato a conoscerle e a coltivarle in segreto nei giardini occulti. Libere dal maschio, autonome nella loro iniziativa sessuale e nel disporre di loro stesse e del loro corpo, padrone di essere felici, le Donne Arcaiche avevano potuto decidere per diritto di Natura se e quando procreare, quando avere figli e quanti, quando essere fertili, quando essere sterili, quando ritornare a essere fertili, regolando e rinnovando sempre il ciclo del Grembo della Donna, in armonia con il ciclo della Luna e con quello delle Stagioni della Natura, determinato da Demetra e da Persefone. Così avevano potuto evitare la sovrappopolazione, come pure le carestie e le epidemie che l’accompagnavano, e dominare la discendenza. Avevano potuto persino decidere se e quando dare figli ai re e ai principi, determinando così le sorti dei casati e delle stirpi, dei troni e dei regni.

21. Negare tale Armonia, sebbene ormai perduta da tempo immemorabile, potrebbe non essere altro che proiettare su un passato pressoché ignoto l’alienazione attuale del genere umano dalla Natura, e giustificarla presumendo che nei tempi arcaici la Natura medesima sia stata ostile e pericolosa, che le piante siano state difficili a conoscersi e a procurarsi, e che le belve siano state tanto feroci, aggressive e ferali da rendere necessario difendersene mediante la violenza, le armi e la strage. Eppure può darsi che non sia stato affatto così. Appare probabile che per procurarsi il sostentamento e per evitare aggressioni o incidenti sia stato preferibile, più semplice e più efficace, armonizzarsi con il Bosco, imparando a conoscerne tutti gli aspetti e tutti gli abitanti. È quindi lecito immaginare che nel remotissimo passato il genere umano abbia vissuto in Armonia con la Natura, e che non abbia avuto bisogno di altra difesa, anzi, di nessuna difesa, se non di quella stessa Armonia, incarnata nella Donna Arcaica, Figlia della Luna, dispensatrice dei doni della Dèa.

22. Forse la Donna Arcaica aveva raccolto proprio in una cesta sia le piante necessarie al sostentamento sia i semplici, e forse la sua cesta era poi diventata la cista agricola, deposito del raccolto, dal cui possibile antico nome mediterraneo, «panda-ra», era forse derivato il nome della stessa Pandora. In seguito, la cista agricola, in cui era custodito il dorato cereale attributo di Demetra in quanto Grande Madre del Grano, era forse diventata la cista mistica in cui erano custoditi gli oggetti sacri nascosti ai profani nei misteri dionisiaci di Demetra e di Iside. Simbolo del Grembo, contenente a sua volta altre immagini del Grembo stesso, ovvero la Madre Dèa che ha in sé le proprie Figlie, aspetti di Lei, la cista mistica simboleggiava anche il rapporto intimo e sacro di Armonia che univa la Luna alle sue Figlie, nonché tutti i cicli di vita, morte e rinascita, sviluppo, deperimento e rinnovamento. Forse, svolgendo di volta in volta funzioni diverse e simboleggiando di volta in volta misteri diversi, eppure affini, il cesto della Strega racchiudeva in sé i vari aspetti di una sapienza femminile tramandata dai tempi della Donna Arcaica, la quale l’aveva ricevuta in dono da Pandora, la Terra, Luna, Madre.

Immagine 1: John William Waterhouse, Flora
Immagine 2: John William Waterhouse, Gather ye rosebuds


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Ringrazio Elke, per l’assistenza nello studio dell’«Inno alla Natura», e Violet, per avere indicato la Via, e per l’ispirazione e l’aiuto costanti.


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