Il Tempio della Ninfa

Bianca e Andrea

Articoli / Racconti
Inviato da LaZiaArtemisia 29 Mag 2010 - 01:41

Vi racconto una storia meravigliosa,
che parla di una sorellanza di donne incantate,
di rituali notturni e danze silvane alla luce della Luna,
della femmina Sacra, e del suo Re Cervo,
ma che più di tutto svela l'amore più speciale,
quello tra chi non si conosce, ma si riconosce,
come compagno di mille vite differenti,
attraverso il tempo, la storia, le morti e le rinascite.

L'amore Sacro che corre infinito sulla via del Tempo ciclico non ammette altro che se stesso, perchè dal momento in cui due persone si incontrano per l'ennesima volta dopo molte vite, riconoscendosi come parte viva l'uno dell’altra, non possono fare altro che stare insieme, nonostante le malelingue, le avversità, il destino, la logica stessa.
Nient'altro che stare insieme.

Questa storia è stata scritta da una Signora che si chiama Pier Isa della Rupe, ed è riportata qui con il suo consenso.

La Zia Artemisia

***

Bianca e Andrea
Tratto da Le Streghe di Montecchio, di Pier Isa della Rupe, Fefè Editore, Roma, 2007, pp. 58-75.

“Viveva in una caverna sotto una rupe di peperino a ridosso della macchia solitaria di Montecchio; per la sua pelle trasparente come alabastro e la veste di lino candida come la neve, quelli che avevano avuto la ventura di incontrarla la chiamavano Bianca.
Teneva i lunghi capelli neri e lisci acconciati in un unica treccia che le ricadeva sulla schiena, il taglio degli occhi leggermente obliqui ricordava le donne dell’antica Grecia con un velo fiero e tragico sul volto. Misteriosa, solitaria, inquietante figura di donna, difficile d'avvicinare, incuteva timore, rispetto e soggezione.
Era, Bianca, una creatura bellissima, una figlia della Luna e come le sue sorelle era tabù.
Selvatica, scontrosa, d'umore mutevole, se era triste o allegra raccontava solo al vento i suoi pensieri. Certe sere, vestita di bianco, aspettava che nascesse la Luna seduta sulle rocce e, mentre intrecciava i lunghi capelli, cantava come una sirena struggenti melodie d'amore. Cantava così bene che nella lunga curva del borgo tutti ascoltavano estasiati le risonanze di quella voce che penetrava nel profondo dell'anima.
La sera che precedeva la notte magica di San Giovanni, sulla bocca del tramonto, un pastore che scendeva la china del monte con pecore e agnelli candidi e neri sentì un canto arcano.
Bianca, bellissima, splendeva come una statua di marmo: aveva acceso un gran fuoco sopra la rupe e, sfiorando appena con i piedi umidi di rugiada la terra rossa del Montecchio, cantava danzando attorno alle fiamme. Mentre contemplava il cielo con le vesti che ondeggiavano al vento, sembrava un cigno pronto per spiccare il volo. Durante il suo rito magico, pure la foresta, come sotto un incantesimo straordinario, cambiò di colpo: gli uccelli notturni che volavano bassi sul capo del pastore parevano uomini coperti di piume e gli alberi che circondavano la rupe al chiarore di quel fuoco parevano persone che, a braccia spalancate, danzavano coperti di rami e foglie. L'uomo, attonito, rimase nascosto dietro il tronco di un albero ad osservare per tutta la notte. Bianca, prima del giorno, dopo aver raccolto un canestro d'erbe e una coppa di preziose gocce di rugiada, avvolta in una nuvola di fumo, scomparve nel grembo profondo della sua caverna; lui disperato cercò di seguirla, ma non riuscì a trovare l'ingresso della grotta, così girò all’infinito attorno ad essa, ritornando sempre allo stesso identico punto.
Alle prime luci, tra la nebbia rosata dell’alba, mentre l'odore del muschio bagnato avvolgeva la terra, la giovane moglie del pastore , dopo averlo cercato inutilmente tutta la notte con la lanterna accesa, ritrovò sopra le rocce della caverna di Bianca solo le pecore, che ritte sul dirupo come sfingi volgevano i grandi occhi foschi a oriente. Cosa avevano visto nella notte stregata gli occhi di quelle bestie? Chi aspettavano ritte sul dirupo? Dove era finito il pastore? Nessuno lo sapeva e per quanto la moglie e gli amici continuassero a cercarlo, sopra il monte e sopra il piano, l'uomo era sparito come una piuma nell'aria e più nulla si seppe di lui e dei suoi agnelli.
I vecchi raccontano che ancora oggi nella notte di San Giovanni è possibile vedere il pastore seguito dai suoi agnelli neri e bianchi che continua a girare attorno alla caverna cercando l'imboccatura d'accesso nascosta dal fumo.


Una mattina di una caldo giorno di settembre, Bianca era all’ingresso della sua caverna: aveva appena finito di pestare nel mortaio di pietra una poltiglia di salsa di noci e mentre si avvicinava con la mestola di legno al paiolo fumante, vide salire sul viottolo serpeggiante un giovane bello come il sole che andava per funghi; teneva sulle spalle un bastone dal quale pendeva un grande fazzoletto a quadri blu e bianchi.
Lui non la vide, fischiava allegro intanto che saliva. I lunghi capelli castani leggermente ondulati, mentre camminava con un andatura tutta speciale quasi dondolandosi, brillavano nella fitta macchia. Quell’incedere e il suo portamento elegante stupirono Bianca che restò a guardarlo a lungo incuriosita, finché lo vide scomparire inghiottito nel selvaggio mare verde del bosco di Montecchio.
Lo sentiva ancora fischiare, quando improvvisamente decide che voleva rivederlo. Non sapeva perchè, ma era certa che voleva rivederlo presto, anzi prestissimo. Lesta si piantò sul sentiero guardando a nord-est dove lo aveva visto scomparire, sollevò la mano bianca come neve e puntandola all’orizzonte, ordinò con occhi fiammeggianti: “Abitatori di rocce e d'alberi, ninfe e folletti della macchia, dispensatrici di vita, voi che nutrite i nuovi frutti nati senza seme ascoltatemi. Ascoltate la vergine che canta i vostri doni: voglio che nel bosco non si trovi nessun fungo”.
Poi entrò nella grotta, prese un canestro grande, lo riempì velocemente dei funghi migliori, ci mise anche un cespuglio d'ovoli. Nel mettere bene in vista quei funghi rari dai bellissimi colori aranciati, sorrideva pensando alla faccia che avrebbe fatto il giovane vedendoli.
Nell'attesa che lui scendesse, intrecciò una corona d'alloro con ciclamini e bacche rosse. Bianca aveva una forte sensibilità per i colori, sapeva che il rosso sul verde delle foglie d'alloro incanta, così come incanta il rosa dei ciclamini sopra il nero dei suoi capelli. Quando ebbe finito di creare la corona, felice la poggiò sul capo, prese un grappolo d'uva dalla sua bisaccia appesa ad un ramo e nell’attesa di lui sedette sulla sua roccia preferita piluccando quegli acini d'oro che splendevano come il sole.
Presto il giovane ridiscese il viottolo, era assorto, come inseguisse i suoi pensieri dietro ad una ragnatela invisibile. Non fischiava più e il suo fazzoletto infilato nel bastone ciondolava ancora vuoto. Bianca nel chiedersi cosa pensasse mise il canestro bene in vista al centro del sentiero. Lui continuò a scendere con la sua aria sognante, quando la vide apparire bella come una Dea tra il verde del bosco, con le foglie della fratta che lottavano tra loro per baciare un lembo della sua veste immacolata, per lo stupore quasi inciampò nel cesto di funghi e risvegliatosi domandò incantato guardandola negli occhi: “E' tuo questo canestro? Dove hai trovato questi funghi?”
Bianca, con il suo grappolo d'oro in mano stava per rispondere, ma lui senza aspettare risposte continuò a guardarla affascinato e navigando nei suoi grandi occhi scuri dal taglio obliquo chiese ancora: “Chi sei? Come ti chiami? Perchè, se non ti ho mai visto, il sangue nelle mie vene sembra riconoscerti?”
La figlia della Luna con il suo arco infallibile poteva uccidere chiunque: cacciatori, guerrieri o pastori che nascosti nel verde osassero spiare il suo corpo sacro, adesso avanti al primo sguardo di lui, avanti a quegli occhi brucianti capaci di svelare qualsiasi segreto in un solo attimo magico separando per sempre la vita dal sogno, è commossa. Dimentica i suoi poteri, le guance in fiamme come una vergine al primo appuntamento, con le ginocchia che le tremano, si appoggia ad un albero senza rispondere.
Continuano a guardarsi a lungo bucandosi gli occhi e, mentre il mana con la sua forza sacra li avvolge, immobili ascoltano le proprie emozioni.
Finalmente a fatica e con un filo di voce lei sussurra: “Mi chiamo Bianca, vivo in questo monte, quando ti ho visto salire ho raccolto per te questi funghi, domani se vuoi potrai riportarmi il canestro. Ma adesso raccontami di te, sei forse forestiero?”
“No! Vivo nel paese”.
“Chi sei dunque, come ti chiami, dove lavori?”
“Posso vantare una discendenza nobile e antica. Un mio antenato veniva dalla lontana Spagna, per arrivare qui ha attraversato impervie montagne, umide valli, fresche radure, fertili campagne, cavalcando un cavallo di razza. Io, Andrea, figlio d'Angelica la cantastorie, sono l'ultimo di quella nobile stirpe. Il nonno di mia madre era Eligio, il famoso poeta dei Sette Colli: le sue canzoni erano poesie appassionate, parlavano di un giardino dell’amore ed erano così belle che mia madre durante la festa della mietitura ancora le canta, anche io conosco a memoria alcun sue poesie. Mio nonno paterno invece campava la vita vendendo miele e formaggio, era sempre in giro per la Tuscia con il suo carro scassato. Il figlio, Davide Maria Mordecchi, mio padre, è tuttora il mastro bottaio del castello, io lavoro con lui: costruiamo botti, scale, bigonci per il duca Lante della Rovere”.
E senza aggiungere altro la afferra con un braccio per la vita sollevandola da terra, chiude gli occhi e la bacia sulle labbra che scottano.

Così si incontrarono Andrea e Bianca e subito iniziò la leggenda che è arrivata fino a noi. Il loro grande amore eguale ad una catena con le maglie forgiate a fuoco vivo è riuscito a superare i limiti del tempo e persino quelli della morte.
Andrea quel meriggio ritornò al paese saltellando felice come una capriolo quasi che avesse dischiuso le porte del paradiso. La sera a casa, mentre avanti al fuoco mangiavano polenta e cacio, lui, ancora tutto euforico, raccontò alla madre e al padre dell'incontro con Bianca avvenuto sopra Montecchio. Il padre, un vecchio alto, curvo, sdentato, con gli occhi un po’ fuori dalle orbite, nell’ascoltarlo rischiò di morire soffocato: un grosso boccone di polenta gli restò appiccicato alla gola togliendogli il respiro. Appena si riprese lo afferrò per un braccio e scuotendolo tutto, inferocito, lo minacciò urlando: “Per Dio Andrea, che io sia impiccato se ti lascio fare una sciocchezza del genere. Bada a te! Si può sapere che grilli andavi cercando sopra quel monte malefico? non sai che quella femmina e le sue sorelle vanno estirpate come la malerba dal seminato? Dimentica d'averla incontrata, non potrai mai prenderla per moglie, la sua anima è come una palude infetta nel cui fango dormono mostri che solo un sospiro può risvegliare. Se non stai attento scivolerai in quella palude di sabbie mobili”.
La madre, i vecchi e soprattutto le comari confermarono le parole del padre: quella donna selvatica, pure se bellissima, quella donna in realtà altro non era che una strega… Una strega capace di fare sortilegi e persino di volare nelle notti di Luna.
Lui non ci voleva credere. Pazzo d'amore, al colmo della felicità, ridendo e battendosi il pugno sul petto rispondeva: “Vorreste farmi intendere che lei, con una semplice formula magica, potrebbe cambiare il corso del fiumi, asciugare il mare, fermare il sole e la Luna? Potrebbe rendere buio il giorno ed eterna la notte e magari trasformare in schiuma ogni nuvola del cielo? La vostra non è forse solo invidia? Solo cattiveria pura? Nessuno di voi riuscirà a mettere zizzania tra me e la mia Bianca. Se lei è una strega vera, allora io sono il diavolo e la sposo lo stesso. Le sere sotto la Luna balleremo il sabba e nel nostro orto, invece dei pomodori, rape e patate, pianteremo solo alberi di noci”.
Angelica, la madre, cercava di persuaderlo in tutti i modi a non tornare più sul Montecchio: “Non fare orecchie sorde, figlio mio, ascolta quel sant'uomo di tuo padre, ti ostini a non voler sentire né capire cose che possono benissimo essere vere, cose grandi che vanno al di là della nostra comprensione. Quelle donne non sono creature semplici come noi, hanno sette anime come i gatti e...”
“Sette anime come i gatti, madre? Voi credete veramente che la mia Bianca sia una maga, un indovina, una strega così potente, capace di tirare giù il cielo, di far sprofondare la terra nelle profondità del Tartaro riportando tutto al caos primitivo come racconta Creola, mia sorella di latte? Secondo voi madre, una fanciulla da sola può far diventare di pietra le fonti? Può spegnere le stelle? Può trasformare in porci gli uomini? Vi scongiuro, madre mia, per quanto vi amo, almeno voi smettetela con questa storia ridicola”.
“Ti ripeto per l'ultima volta, figlio mio, non andare sopra quel monte, non ascoltare il cuore”.
“Madre, dovete rassegnarvi. Nessuna donna m'interessa più di lei, nessuna al mondo. Pure se scendesse un angelo dal cielo, se la stessa Venere in persona uscisse dalle nebbie con i capelli sciolti in morbide onde sul corpo nudo, implorandomi amore con la mano tesa, io mi libererei di quella mano come fosse una catena e di gran fretta volerei alla grotta di Bianca, la mia Bianca!”
Ad Angelica, dopo aver tentato invano di spiegare al suo unico figlio che quella stupenda creatura possedeva la malefica potenza di far perdere il senno a chiunque avesse la ventura di avvicinarla, non restò altro da fare che strapparsi i capelli dalla disperazione. Da quel giorno accese in perpetuo ai piedi del letto un lume per le anime sante del purgatorio affinché le facessero la grazia di scacciare dalla testa del figlio quel diavolo di strega. Davide, il padre, nel tentativo di distrarlo, arrivò persino a regalargli la mula baia che Andrea desiderava da tanto tempo. Le comari del vicinato istituirono una sorta di consorzio di preghiere: da quel giorno fino a quando Andrea non fosse rinsavito, sia andassero ai campi, al lavatoio, nelle stalle ad accudire le bestie o al fosso con le brocche e le conche sul fianco, portavano sempre sul petto un sacchetto con le immagini benedette di S. Saturnino e di S. Rocco, protettori di Bagnaia. E al tramonto, al suono dell'Ave Maria, le comari tutte assieme, giovani, vecchie, vergini, zitelle, sposate, vedove, gravide o partorienti, al suono di quella campana si buttavano in ginocchio a terra e battendosi il petto pregavano in coro che quella malia finisse al più presto.
Ma non servì a niente, Andrea non “guariva”. Stava così bene con Bianca e solo voleva restare con lei a dispetto di tutto e di tutti. Erano sempre assieme, alla grotta, sui monti: felici giocavano come fanciulli, saltavano i fossati, correvano nella macchia coperta di bacche rosse, sotto i rami verdi dei lecci raccoglievano funghi, orchidee, finocchio selvatico, castagne. Bianca gli insegnò ad accendere il fuoco con la pietra focaia, ad intrecciar canestri, a riconoscere le erbe da pestare per gli unguenti medicamentosi, a cogliere i fiori di campo da essiccare per fare potenti talismani da portare appesi al collo, amuleti magici capaci di curare qualsiasi male. Andrea era molto intelligente e imparava in fretta, ormai sapeva persino preparare misture con semplici frutti di bosco.
Un giorno, mentre erano abbracciati e contemplavano il sole riflesso dentro una goccia di rugiada, Bianca pensò che era arrivato il momento di svelargli i segreti più arcani: i riti magici, i misteriosi canti sacri. Regalandogli il suo sapere e la sua energia, piano piano gli fece scoprire la forza nascosta nella mente umana.
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Un meriggio di venerdì, Andrea era andato come sempre da lei e al tramonto invece di tornarsene nella sua casa nel borgo, stanco della lunga giornata di lavoro, si gettò sulle pelli che giacevano in terra avanti il fuoco acceso al centro della grotta e, mentre il tepore caldo della fiamma lo avvolgeva eguale ad una dolce nuvola, s'addormentò come un sasso. Bianca lo lasciò dormire. Solo quando risuonarono i rintocchi sordi delle campane della torre, all' Ave Maria, si risvegliò, ma rimase pigramente ad occhi chiusi intorpidito avanti la fiamma.
All'improvviso sentì della voci fuori la grotta, Bianca parlava pianissimo con qualcuno. Andrea con l'orecchio teso come un brigante si mise in ascolto e percepì chiaramente solo qualche frammento di discorso: “....dentro c'è lui che dorme...aspettate qui... farò prestissimo....”
Povero Andrea, non sapeva che Bianca stava parlando con le figlie della Luna.
Quando lei rientra, lui dischiude appena gli occhi: nel chiarore fumoso dell’anfratto appaiono e spariscono come chimere mille ombre tremolanti, finché, alla luce della fiamma proiettata sulla parete della roccia, in quel mondo sotterraneo della caverna preistorica, vede come in un miraggio sbiadito la figura riflessa di Bianca spogliarsi completamente. Immobile, con le tempie che pulsano, resta paralizzato sul suo letto di spine. In principio spera di sognare ma la parete di tufo, vigliacca, continua a rimandargli quella visione terribile.
Incantato rimane a contemplare la cruda realtà: come nuotasse dentro un sogno vede l'ombra tremolante di Bianca che s'avvicina ad una nicchia scavata nella roccia, apre un piccolo barattolo di creta e si unge il corpo. Infine, quando dalla parete rossastra ogni immagine sparisce, Andrea ancora incredulo, gattoni esce all’aperto e nascosto dietro la fratta di biancospino, vede Bianca ritta sul ciglio di un burrone.
Immobile, il bellissimo corpo nudo contro il cielo livido, il profilo greco offerto alla madre Luna, con mano sicura scioglie la lunga treccia di seta e subito i suoi capelli si sparpagliano vaporosi sullo sfondo lunare attorcigliandosi come serpi in amore. Bianca, più bella della dea della notte, intona il suo misterioso canto sacro poi spalanca le braccia e in un subito vola seguita dalle sorelle.
Il giovane avanti a quella visione irreale rimane a bocca aperta, incredulo, e mentre quel dolce canto si perde in lontananza come un forsennato ripete tra sé un eterno ritornello: “Bianca una strega! La mia Bianca è veramente una strega! I miei vecchi avevano ragione! Hanno pure provato ad avvertirmi e adesso, adesso che faccio mio Dio?”
Geme, si lamenta, finché alle sue spalle nella selva, sente un rumore di foglie mosse, rami spezzati, passi strascicati. Gli pare che una mano scheletrica per un momento gli sfiori la schiena. Con i capelli ritti sul capo che formicola, domanda alla notte, moribondo d'angoscia: “Chi va là? C'è qualcuno dentro questa ragnatela buia?”. I passi subito si fermano, chiama ancora, chiede aiuto ma risponde solo il silenzio; quell' assenza di suoni gli penetra dentro le ossa, mentre i passi, quei passi misteriosi che gli graffiavano il petto come artigli di Satana, ormai risuonano lontani, molto lontani, confusi, persi per sempre nella notte. Allora tutta la sua baldanza, la sua semplice filosofia di vita, il suo amore, la sua forza, cadono dietro a quel mistero. La paura di essere solo lo soffoca, è una paura nuova che non conosceva e come aveva profetizzato il vecchio padre, lentamente si sente scivolare dentro la misteriosa palude infetta dove dormono mostri orribili.
Un' onda di disperazione, un'angoscia invincibile lo assale. Spaventato come un bambino, quasi fosse nel grembo della madre, si accuccia sempre di più sotto quella fratta di biancospino piangendo lacrime amare. Resta a lungo fuori la grotta con le labbra arse e mentre gli zoccoli delle ore gli battono nel petto, sulla sua anima corrono orribili ombre deformi. Infine, quando poteva essere ormai mezzanotte e la Luna continuava a salire nel cielo limpidissimo, passato il primo stordimento, il suo grande amore torna a prendere il sopravvento su tutto.
Andrea raccoglie il coraggio con le mani e inizia a pensare come salvare Bianca, come fare affinché diventi “normale”. Sostituire il contenuto del barattolo con il quale si è unta gli sembra la soluzione migliore, anzi l'unica, e decide di provarci. Un poco più sereno rientra nella grotta, aspetta sveglio tutta la notte finché suona il giorno e quando la figlia della Luna rientra, si finge profondamente addormentato avanti al fuoco semispento.
Lei si veste in fretta, soffia sul fuoco, mette ad ardere nuova legna poi lo sveglia dolcemente con un bacio. Crede di svegliarlo! Andrea la guarda, Bianca illuminata dalla luce della fiamma è bella come un angelo. gli occhi e il volto risplendono più dell'oro, mentre le calde, rosse labbra carnose si posano su di lui come si posa il sussurro del vento tra le foglie nuove della selva: soave, tenero e terribile.
Ritornando al paese Andrea scende perso per quel sentiero dove solo qualche ora prima era salito col cuore alle stelle: barcolla come fosse un ubriaco, gli sembra che il mondo intero non abbia più ragione d'esistere, tutto l'universo in un momento solo gli è crollato addosso.
Arrivato al castello, prima di andare al lavoro si ferma un momento al portale dell’osteria sotto la torre, il sangue gli pulsa nelle tempie, nelle orecchie, nei polpastrelli delle dita, ha la gola arsa, sente freddo e gli pare di avere la febbre. Entra, siede sulla panca e mentre ordina un bicchiere di vino, continua a ripetere fra sé come un pazzo: “Non è vero niente, sono tutte calunnie, infamie di gente cattiva. Scorpioni invidiosi.”
Beve e sempre borbottando tra i denti posa con mani febbrili la sua coppa di dolore sul tavolo sudicio, resta con lo sguardo fisso al vetro della finestra, infine si alza per andare alla bottega del padre. Anche se in cuor suo spera di aver fatto solo un brutto sogno, prima di notte di malavoglia si procura un barattolo di creta uguale a quello che ha visto alla caverna, lo riempie con un unguento innocuo di camomilla e tremando aspetta il giorno della Luna.
E' una settimana d'inferno, la più lunga e brutta della sua vita.
La sera del venerdì, da Bianca, appena gli è possibile sostituisce il barattolo nella nicchia e poi finge di addormentarsi. Lei, vedendolo rannicchiato attorno al fuoco, con gli occhi chiusi e il volto reclinato sul petto come un fanciullo, intenerita prende a accarezzargli i capelli. Andrea si sente morire, immobile avanti la fiamma, con le ginocchia serrate, gli occhi chiusi; vorrebbe dirle che ha scoperto il suo terribile segreto, ma rimane bloccato, accartocciato dentro il suo grappolo di dolore.
Al suono dell'Ave Maria, arrivano le figlie della Luna.
Questa volta Andrea le sente ridere forte, Bianca esce infastidita e dice loro di aspettare; tornata dentro, s'avvicina ancora ad Andrea, nuovamente gli accarezza i capelli, indugia sulla fronte, sul collo, sulle labbra.. Sembra indecisa, forse non ha voglia di andare, magari vuole svegliarlo, dirgli qualcosa.
Andrea con il sangue che gli pulsa nel capo fino allo spasimo, vorrebbe alzarsi, ma la tensione gli impedisce di muoversi. Se solo potesse abbracciarla, stringerla forte, serrare le labbra calde di lei sulle sue e non lasciarla più andare. A fatica trattiene le lacrime che gli bruciano dentro le palpebre. Spera ardentemente che Bianca parli, si spieghi, insieme troveranno una soluzione.
Improvvisamente da fuori le sorelle la sollecitano e finalmente lei si decide, si spoglia, riprende il barattolo. Andrea dall’ombra contorta sulla pietra segue disperato ogni suo movimento: tutto uguale all’altra notte. Finito di ungersi Bianca esce, sale di nuovo sul precipizio, si scioglie la treccia, apre le braccia e cantando, si lancia nel vuoto..
Andrea, immobile nella grotta, sente il tonfo terribile.
Urlando come una belva ferita, con un balzo esce all’aperto. Il burrone! Non aveva pensato che Bianca si lanciasse nella terribile gola spalancata prima ancora di iniziare a volare!
Saltando come impazzito scende nel precipizio, si arrampica sulle rocce, si curva a cercare nel vuoto, fruga tra i cespugli, trascinandosi sulle ginocchia tasta le foglie, il muschio, l'erba e intanto urla: “Bianca! Bianca! Che ho fatto, che ho fatto, mio Dio! Mio Dio!”
Infine vede il suo amore riverso nell’erba.
Bianco cigno senza ali, senza più nido né piume.
Il volto bellissimo nell’urto contro le rocce è rimasto miracolosamente immacolato e alla luce della luna risplende diafano e lucente come una parla rara, solo le labbra sono appena un poco più pallide. Le mani candide, ancora velate di mistero, stringono un rosario di rugiada.
Andrea avvicinandosi trema come avesse la febbre, prima di toccarla si morde le mani torcendosi in una crisi disperata di rimorso; poi, con gli occhi appannati e brucianti eguali a quelli di un lupo, con la schiuma alla bocca, s'inginocchia e piange lacrime amare.
Lacrime gli scendono sulle guance, gli bagnano le labbra e, mentre ingoia quel sapore acre e salato, eguale al lupo mannaro ulula alla Luna; che continua indifferente a illuminare le montagne livide e fredde mentre tutt'attorno il mondo pare morto. Come in un delirio, con il corpo scosso da singhiozzi convulsi, la stringe selvaggiamente al petto, la solleva tra le braccia, bacia mille e più di mille volte quelle labbra ancora dolci come miele selvatico.
Quando non ha più lacrime, quando il suo volto disfatto è solo una maschera di cartapesta, vorrebbe pregare, ma non ricorda altro che l'inizio di un antica preghiera: “Recordare Jesu pie / Quod sum causa tuae viae / Ne me perdas ille die...”
Con gli occhi sbarrati sul nulla recita un'infinità di volte quella preghiera incompleta senza capirne a pieno il significato. Poi, con Bianca sempre stretta fra le braccia, ritorna nell’antro della grotta; adagia quel corpo tanto amato vicino al fuoco, tenta invano di riscaldarlo, l'accarezza, ci parla, le chiede perdono, si maledice per quello che ha fatto.
Resta così per ore e, quando le parole non servono più, quando i ciocchi sul fuoco sono ormai un mucchio di cenere livida, un'ora prima che il suono della campana della torre racchiuda la notte dentro una coppa di luce e la cenere di quell'ultimo incontro voli assieme alle spore trascinate dal vento, Andrea prende il barattolo di creta rossa, quello che aveva sostituito: si spoglia, si unge tutto il corpo come aveva visto fare a Bianca, unge anche lei lentamente, cercando di non farle male e, tenendola sempre stretta al petto, s'avvicina alla bocca del precipizio.
Le nuvole passano lente e basse sul suo capo, nere come uccelli rapaci e all'orizzonte l'ultima stella bambina brilla indecisa, quasi voglia staccarsi dal cielo per scendere sulla terra dove si ama e.. si muore.
Ma Andrea non vede niente, i suoi occhi sono solo per l'amata. Un ultimo sguardo alla compagna di vita e di morte, poi, senza esitare, con la voce rauca per il pianto sussurra all'orecchio di lei le note della magica e sacra canzone, chiude gli occhi già appannati dal dolore e si lancia nel vuoto.

I vecchi raccontano che ancora oggi, nelle notti di Luna, specialmente quando il muschio ricopre le rocce con la sua fioritura scarlatta, quando la ginestra indora i bordi dei fossati, quando i fiori candidi del sambuco sono coperti da una miriade di scarabei verdi, le carnose orchidee di bosco con le selvatiche rose canine si accendono cambiando di colore tutta la foresta, proprio allora, sotto Montecchio, si vedono passeggiare Bianca e Andrea. Si tengono dolcemente per mano, indossano vesti di lino bianche come neve e sul capo portano corone d'alloro intrecciate a bacche rosse e ciclamini.”


Tratto da Le Streghe di Montecchio, di Pier Isa della Rupe, Fefè Editore, Roma, 2007, pp. 58-75, con il gentile consenso dell'autrice.

Testo di Pier Isa della Rupe. Vietata la riproduzione anche parziale senza il permesso scritto dell'autrice.




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