Il Tempio della Ninfa

Schegge di Luna

Articoli / Archetipi
Inviato da Alessandro 11 Gen 2010 - 00:16

«[…] la vergine corre come se avesse le ali.
[…] [fila] come una freccia degli Sciti […].
Resa alata dall’impeto dei piedi, porta sandali dorati;
fluttuano i suoi capelli sulle spalle d’avorio, come le bende,
con i bordi ricamati, che fasciano le sue ginocchia;
di rosa è soffuso il candore verginale del suo corpo:
così una tenda di porpora, in un atrio di marmo,
trasmette, come un velo d’ombra, al bianco il suo colore.»

(Ovidio, «Metamorfosi», X, 586-597)

Non occorreva cercare, né invocare, né evocare. Nel tempo remotissimo in cui le foreste gettavano le loro ombre azzurre, verdi e purpuree su tutta la terra che non era folta e frusciante di campi e di prati soleggiati, né svettava rocciosa e spoglia sino alle nubi, né era ammantata di candidi ghiacci e di nevi sfavillanti o di mari che pulsavano profondi in sintonia con la Luna, si avvertiva nel silenzio la sua ineffabile presenza. Con la purezza inaccessibile del divino e del sacro, ella respirava nella luce, trasparente sui prati e sulle cime dei monti, fosca nell’ombra delle selve, opalescente nella bruma delle brughiere, diafana nel ghiaccio e nella neve, sfavillante nella rugiada. Respirava nella limpidezza del vento e della brezza, dei ruscelli, dei fiumi e dei laghi. Talvolta si percepiva in modo vago e fugace come un alito, un passaggio, un indugio. Talvolta, nella luce abbagliante e silenziosa del meriggio, oppure nel crepuscolo grigio o viola accarezzato dalle voci dei caprimulghi, appariva in forma sublime di numi dalle sembianze umane o animali. Poteva capitare allora, a chi percorreva un sentiero nel bosco o fra i prati, d’incontrare nel folto, accanto a un’antica quercia, o al margine di una radura, o presso un macigno verde di muschio, una Ninfa Cacciatrice, reduce dalla corsa della caccia, sudata senza essere trafelata, gli occhi fulgidi come Luna.

A chi sostava presso una fonte in cui si rifletteva la luce d’argento della Luna, e poi vi si curvava a rinfrescarsi, oppure a bere, poteva capitare, se la fonte era deserta, nella quiete del sospiro della brezza e delle fronde, delle erbe e delle acque, ciò che era avvenuto al fanciullo Hylas. Poteva accadere, cioè, che la fonte tacesse, che il tempo nel silenzio cessasse di scorrere, e che le acque si modellassero nelle forme di un volto e di membra bellissimi. Così la Ninfa che ne era la dèa emergeva dalla fonte, scostandosi dalla fronte i capelli gocciolanti, e si pettinava le trecce verdi sino ad asciugarle. Talvolta il viso s’innalzava per baciare, oltre che per sorridere, e le braccia si protendevano per cingere e attirare il prescelto, che sprofondava nelle acque come inabissandosi in se stesso, perché la fonte divina da cui sgorgavano le forme numinose era anche in lui, e al tempo stesso s’immergeva nella Dèa medesima, che era ovunque, passando Altrove.

Non occorreva cercarla, né invocarla, né evocarla. Eppure vi era sempre qualcuno che voleva vederla quando e come Ella non desiderava mostrarsi; qualcuno che pretendeva da Lei che si rivelasse a richiesta per rispondere alle domande, o che a richiesta dispensasse ispirazione; qualcuno che aveva l’arroganza di pretendere di forzarla a concedere i suoi favori, o persino di poterla conoscere, o di concupirla e di poterla avere.

Una divina Fanciulla Cacciatrice che amava vagare per le radure e tendere reti, forte, audace e bellissima, sebbene arrossisse alle lodi per la sua bellezza, un giorno, di ritorno dalla caccia nei boschi, stanca e accaldata nel caldo della tarda mattinata, trovò un fiume silenzioso e privo di gorghi, così placido da sembrare immoto e così limpido che si poteva distinguere e contare ogni sasso sul fondo, con le rive ombreggiate di pioppi e di salici argentei. Dopo essersi immersa sino alle ginocchia, si spogliò completamente, appese i morbidi indumenti a un curvo ramo di salice, si tuffò, e a lungo nuotò e giocò nell’acqua. Nel frattempo fu sorpresa e spiata da un cacciatore di nome Alfeo, il quale, ad un tratto, forse nell’intensità del desiderio, provocò un rumore che la spaventò, inducendola ad uscire dall’acqua per rifugiarsi sulla riva. Poi cercò di avvicinarla per possederla. Tuttavia la fanciulla non desiderava concederglisi, e fuggì, nuda, perché i suoi indumenti erano sulla riva opposta. Inseguita, corse per brughiere, per versanti boscosi, per dirupi, per regioni selvagge senza sentieri, finché, ormai esausta, sentì sulle proprie trecce il fiato di colui che la braccava. Allora per essere salvata invocò Artemide, sua Dèa, la quale spesso le aveva affidato l’arco, i dardi e la faretra.

Così la sua voce giunse alla Signora degli Animali, colei che rischiarava la via e guidava alla salvezza chi le si appellava nel pericolo estremo, la quale scelse una nube densa e nell’oscurità di questa l’avvolse, affinché potesse sfuggire all’inseguitore che voleva stuprarla. Similmente per celare la propria nudità Luna si era tuffata in quella che le era apparsa come un nube impigliata nella cima di un pino, e così, ingannata, era caduta fra le braccia di Pan, che invece di braccarla l’aveva attesa in agguato. Ma il cacciatore si fermò dove le orme lasciate dalla fanciulla cessavano, vide la nube, e indugiò intorno ad essa, chiamando più volte. Assediata, la fanciulla divenne madida di sudore freddo, che presto colò in rivoletti argentei. Infine un ruscello le cadde dalla chioma, e lei stessa si mutò in acqua. Allora, come Luna si era accorta che nella nube si celava Pan, così Alfeo, vedendo colare rivoli argentei dalla nube, la riconobbe, comprese che vi si celava, e a sua volta si trasformò in fiume per potersi mescolare a lei. Di nuovo, però, la fanciulla gli sfuggì, come Luna, liberatasi, era corsa via ed era sfuggita a Pan. Infatti sprofondò nella terra spaccata da Artemide, da cui fu nuovamente guidata, e nella sua fuga fluì nelle caverne sotterranee fino a trovare riposo e rifugio ad Ortygia, l’isola sul mare brumoso di cui divenne fonte sacra e Naiade.

Si narrava che questa Fanciulla Cacciatrice fosse la Ninfa Aretusa, «Acqua Rapida», originariamente una Nereide, poi divenuta, come si è visto, Naiade della fonte, sacra ad Artemide, la sua Dèa, sull’isola di Ortygia, di cui la stessa Signora degli Animali portava il nome, dove era nata da Latona e dove aveva un tempio.

Nondimeno si narrava anche che la Fanciulla Cacciatrice insidiata da Alfeo, che era anche un dio fluviale, fosse la stessa Artemide, la quale, in una versione del mito, corse per sfuggirgli e trovò riposo ad Ortygia, dove lo stesso Alfeo interruppe l’inseguimento. Un’altra versione narrava invece che Artemide non si lasciò persuadere a concedersi, così che Alfeo decise di usarle violenza e si recò a spiarla di notte, mentre era in gioiosa compagnia delle Ninfe, sue ancelle, ma non poté riconoscerla, perché proprio a tale scopo ella aveva imbrattato di fango il proprio viso e quello di ognuna delle Ninfe. Così rinunciò al proprio tentativo e se ne andò (1).

Anche in un verso di Telesilla, «Questa Artemide, o vergini, nel fuggire Alfeo», è Artemide ad essere inseguita da Alfeo. Ispiratasi a questo verso, Renée Vivien ne cantò così la fuga…

«Questa Artemide, nel fuggire il desiderio maschile, o vergini,
Volse alle lontananze del meridione i propri occhi irritati.
E i suoi piedi fuggitivi illuminarono le prode,
Calpestando con disgusto le coppie allacciate.

«I suoi lunghi raggi acuminati trafiggono l’ombra delle rive
E dardeggiano i livori, i terrori e i mali,
Sugli uomini in fregola e sulle femmine passive,
Che lottano e si mescolano come gli animali.

«Poiché il suo orgoglio si diletta dei giochi casti e rudi
Della corsa attraverso la forra e il prato;
Ella cerca il timore delle vaste solitudini
Dove nessun soffio mortale ne turba l’aria sacra (2).»

Per Vivien, donna che difendeva la propria assoluta autonomia artistica e sessuale dall’uomo, Artemide con la fuga da Alfeo, come Luna in fuga da Pan, non soltanto protesse il mistero muliebre dalla profanazione, bensì si sottrasse alla privazione della libertà, perché lo stupro, come il matrimonio, sottomette la donna, imponendole il dominio e il possesso da parte dell’uomo. E poiché nel mito lo stupro riflette il passaggio dalla società matrifocale a quella patriarcale, nei versi di Vivien è forse possibile leggere il riflesso dell’avvento degli invasori, i «nemici della Luna» (3). Infatti, coloro che spiano e insidiano la fanciulla cacciatrice sono cacciatori che non rispettano i confini, ovvero invasori, come coloro che arrivarono a distruggere l’Armonia dei tempi arcaici, a violare il mistero muliebre, e ad imporre il patriarcato.

La verginità che Aretusa difende con l’aiuto di Artemide sfuggendo Alfeo, e rifugiandosi nella foresta per non essere vista né toccata da occhi e mani maschili, è dunque la sua libertà, la sua assoluta autonomia dal principio maschile, che è anche autonomia nell’iniziativa sessuale, come appare evidente in un’altra Fanciulla Cacciatrice, la quale, come lei, è manifestazione della stessa Artemide, ovvero «la figlia dell’inclito sovrano Scheneo, simile alle dee nell’aspetto, la divina Atalanta dai piedi veloci […], disdegnava frequentare gli uomini, con l’intento di sfuggire alle nozze degli uomini che si nutron del pane. […] la fanciulla dalle sottili caviglie […]» (4). Con le sue frecce, Atalanta uccise due Centauri che l’avevano assalita, e a tutti i suoi pretendenti impose una gara di corsa: si sarebbe concessa a colui che, partendo con un vantaggio, l’avesse preceduta al traguardo, altrimenti lo avrebbe trafitto a morte con i suoi dardi. E sebbene nessuno avesse possibilità di vincerla nella corsa, nessuno resistette alla tentazione, perché lei si presentò sempre nuda alla gara.

Che sia Artemide, o Aretusa, oppure Atalanta, la Fanciulla Cacciatrice dall’arco maneggevole in spalla, cinta di faretra e abbigliata di pelli, la chioma sciolta al vento, nude le ginocchia delle bellissime gambe, velocissima nel correre all’inseguimento delle prede nelle selve, è anche la vergine in fuga dai nemici. Dunque è lunare, perché vergine e spesso in corsa, insidiata e in fuga, come Luna, e la sua corsa è simile a quella di Luna in cielo.

«Il mito spieghi chi può!
Abbandonando tutto il resto, conservo — come di un
rudere soltanto un monolito — questo verso di cinque
parole, ciascuna una cosa di cui essere grati: Arcadia,
notte, una nube, Pan, e la luna (5).»

Così, con concisione oracolare, Robert Browning riassunse l’oscuro mito molto antico del tentato ratto di Luna da parte di Pan, già rievocato in pochi versi da Virgilio:

«Con un dono di lana così nivea, se si deve credere,
Pan, dio d’Arcadia, ti ha ingannata e sedotta, o Luna,
chiamandoti negli alti boschi; né tu spregiasti il richiamo (6)».

Sembra dunque che Luna, dopo la fuga, ritorni e si conceda a Pan, in una grotta sacra, come quella in cui Artemide si lava, accaldata e stanca come Aretusa dopo la caccia, in compagnia delle Ninfe come Persefone quando Ade la rapisce, immersa in una fonte come Aretusa è fonte, simile a quella in cui Hylas si specchia alla luce lunare.

Con Selene e con Artemide, i cui occhi erano detti stellati perché in essi ardeva o si rifletteva la luce di Luna, era identificata la Titanessa Febe, figlia di Urano e di Gea, madre sia di Leto (Latona, dèa lunare o Luna stessa), a sua volta madre della stessa Artemide; sia di Asteria, madre di Ecate, la quale, con la sua fiaccola, appariva «come la dea Luna stessa» (7). Spesso i poeti indicavano la luna con il suo nome, Febe, perché esso significava appunto la dèa Luna, o più esattamente «Pura», Purificatrice», nonché «colei che atterrisce», e dunque resta «intangibile» (8).

Vergine, unica insieme ad Artemide, che è Luna, ad essere designata «aidos», sacra e pura come gli elementi immacolati della Natura, identificata con Luna al pari di Iside e come Luna rapita, è Persefone, come Kore prima di essere violata da Ade. Mentre Artemide è colei che si allontana, colei che si ritrae, Luna che scende a celarsi nelle profondità ipogee, Persefone è colei che ritorna, Luna che ascende a palesarsi dalle profondità ctonie. Sono due volti della Dèa più antica, Luna, la Signora del Labirinto a cui si offriva miele, Luna vaso di miele, Dèa Natura. Entrambe sono fanciulle, l’una in fuga per non essere violata e per serbare la propria autonomia; l’altra di ritorno, dopo essere stata violata, per riconquistare la propria autonomia e riaffermare la propria supremazia.

Lo stesso poeta che ricordò la fuga di Luna da Pan, e il suo ritorno a Pan, cantò in pochi altri versi, molto più famosi e variamente interpretati nel corso dei secoli, un’arcaica Dèa che, come Luna e come Persefone, si allontana e poi ritorna:

«È giunta l’ultima età dell’oracolo cumano:
nasce di novo il grande ordine dei secoli.
Già torna la Vergine, e torna il regno di Saturno,
già la novella prole discende dall’alto del cielo.
Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro
con cui cesserà la generazione del ferro e in tutto il mondo
sorgerà quella dell’oro: già regna il tuo Apollo (9).»
[pagebreak]La protettrice dei nascituri, Lucina, era Artemide, e Vergine era chiamata la Giustizia, che era detta anche Astrea (10). Nell’Età dell’Oro, l’immortale Dike, la Giustizia, visse in armonia fra gli umani, i quali, ascoltando e rispettando i suoi insegnamenti, poterono condurre le loro esistenze in equità, senza difficoltà né tormenti. Poi giunse l’età del denaro, e i mortali, divenuti schiavi della cupidigia e dell’avarizia, degenerarono. Allora, per evitarli, Dike si ritirò sulle montagne, in solitudine. In seguito si mostrò nuovamente a loro soltanto di quando in quando, al tramonto, per rimproverare il loro decadimento e mortificarli. Nella successiva Età del Bronzo, la malvagità spinse gli uomini a forgiare le spade, armi funeste, e a nutrirsi della carne dei bovini, animali miti e preziosi. Incapace di sopportare simili orrori, la Giustizia volò nel firmamento e scelse come propria dimora quella regione in cui, durante la notte, accanto a Boote, splendeva la Vergine, che teneva in una mano una spiga brillante.

Antica dèa vergine della giustizia, allorché giunse l’«ingrata» Età del Ferro, in cui «irruppe / ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore, / e al loro posto prevalsero frodi e inganni, / insidie, violenza e smania infame di possedere», Astrea fu «ultima degli dei» a lasciare «la terra madida di sangue» (11). Ritornata in cielo, divenne la costellazione della Vergine. Raffigurata con una spiga di grano in mano e identificata con il mese di agosto, diventò dèa della mietitura. Si diceva che fosse figlia di Zeus e di Temi, oppure di Astreo e di Aurora. Come la spiga suggerisce, era analoga a Cerere, dèa del grano e della pace, nonché a Demetra. Era talvolta identificata con Afrodite, talaltra con la Fortuna. Forse era maggiormente affine a due divinità lunari, cioè Iside e Atargartis, un’altra vergine celeste. Nel Rinascimento si sostenne che il suo nome, Astrea, fosse uno dei nomi di Luna, come Diana, Ecate, Lucina e Proserpina. La corona di spighe, simbolo di Persefone o di Demetra, era portata da Aretusa, che presso la fonte Kyane, «la Buia», attraverso la quale Ade aveva condotto Persefone nel Mondo Infero dopo averla rapita, aveva incontrato Demetra e le aveve riferito di avere visto laggiù sua figlia Persefone, mesta, con la paura ancora negli occhi, eppure possente e maestosa regina di quella terra oscura.

All’allontanamento di Astrea con l’avvento dell’età del ferro corrisponde il ritrarsi di Artemide dinanzi agli invasori che distruggevano le sue selve, e violavano e schiavizzavano le sue sacerdotesse e le sue donne, privandole dell’autonomia che le era sacra. Dove la foresta era ancora inviolata, lontano dal mondo umano, dove ancora non si erano addentrati con le loro scuri gli invasori che non vedevano la luce della Madre, e non vedevano nelle Donne e nelle Ninfe occhi né sorrisi, bensì soltanto apparenze tali da suscitare brama di possesso e di violenza, là Artemide si celò agli occhi degli uomini, si appartò nel folto inaccessibile di se stessa, si allontanò dal mondo umano. Nelle foreste, nelle grotte, presso le fonti, le Ninfe e la Dèa non si mostrarono più spontaneamente agli uomini, né offrirono più la visione dei loro occhi e sorrisi luminosi. Come gli specchi, le acque riflettevano il mondo circostante senza più lasciar trasparire l’Altrove. Non si apriva più nessuna porta. Cercando le visioni anziché disporsi a riceverle spontaneamente in dono senza provocarle, gli uomini erano divenuti ciechi alle Ninfe e alla Dèa. I poeti non sentivano più le voci delle Muse. Dovevano cercare in ciò che restava degli echi delle antiche tradizioni le tracce del divino per comporle faticosamente in immagini. Soltanto alle donne che sapevano vedere nella Notte, le Streghe, le quali per questo nella Notte sapevano trovare e percorrere i sentieri che conducevano alle selve romite in cui la Dèa si celava, soltanto a loro Artemide si rivelava: a loro, che accorrevano al suo richiamo nella luce della Luna per seguirla e volare in corteo nelle notti di passaggio.

Con Artemide si è allontanato e nascosto, non dalla Natura, bensì dallo spirito e dalla sensibilità degli umani ottusi e accecati, il sacro, il mistero dell’Armonia che nei tempi arcaici univa tutto l’essere: «la sacra unità dell’immacolata natura», che l’uomo moderno, «il raziocinatore», colui che «si sente nel pieno possesso della sua scienza e della sua tecnica […] può solo rompere e distruggere, ma giammai capire e ordinare» (12).

Tuttavia la lontananza e l’occultamento non sono assenza. Fu Virgilio, proprio nei famosissimi versi citati sopra (13), ad associare il ritorno della Dèa a quello dell’Età dell’Oro. Astrea era stata l’ultima ad abbandonare con riluttanza la Terra, dunque si credeva che sarebbe stata la prima a ritornare, annunciando l’avvento della nuova Età dell’Oro. E poiché allora la primavera sarebbe stata eterna, Astrea fu associata anche a Flora, alla primavera, al mese di maggio, cioè alla rinascita.

Nei versi di Virgilio, Luna rapita e la Vergine Astrea riflettono i due aspetti lunari della Dèa del Mondo Infero, ovvero la vergine Kore, rapita, che scompare, e Persefone, rapita, non più vergine, che torna. Infatti, Persefone, come Luna, è identificata anche con Astrea, che è Luna e Vergine, e come Astrea è colei che ritorna, perché dopo il ratto risale dal Mondo Infero di cui è divenuta regina, come ogni notte Luna ctonia risorge dopo ogni tramonto, salendo al cielo dalle profondità ipogee, cioè dal ventre della Terra, Dèa Natura. Forse è possibile vedere una corrispondenza simbolica fra catabasi e anastasi, sorgere e tramontare di Luna, cicli lunari strettamente connessi ai cicli equorei e al ciclo del sangue femminile, ciclo di nascita, morte e rinascita.

«Poco a poco la Dèa si è ritirata nelle profondità delle foreste o sulle cime dei monti, dove rimane tuttora nelle credenze e nei racconti di fate», scrisse Marija Gimbutas. «Ne è derivata l’alienazione umana dalle radici vitali della vita terrestre, le cui conseguenze sono evidenti nella società contemporanea. Nondimeno i cicli non cessano mai di svolgersi, e ora scopriamo che la Dèa riemerge dalle foreste e dalle montagne, recandoci speranza per il futuro e riconducendoci alle nostre più antiche radici umane (14)».

Come Astrea, la quale abbandonò la Terra all’avvento dell’età del ferro che aveva spezzato l’Armonia, e tornerà ad annunciare la rinascita dell’età dell’oro, così Persefone, come da un ratto e da una catabasi, riemerge da qualche tempo nel mondo onirico, compare nelle visioni che ispirano la poesia, nei sogni dei poeti che l’annunciano. Con lei, attraverso le immagini mitiche rievocate dai poeti, traspaiono autonomamente, come richiamo proveniente da un altrove remotissimo, come ricordi del passato e insieme annunci del futuro, le dèe lunari ed infere, preolimpiche, primigenie, notturne, e l’epoca dimenticata, arcaica, forse mitica, in cui «il mondo era compreso nell’amoroso sogno della Grande Dea» (15) e tutto era in Armonia come nella danza; il principio femminile, nel divino e nell’umano, non era negato né oppresso, bensì riverito e sacro; la verginità era venerata e salvaguardata; e le sacerdotesse «sapevano intendere il linguaggio segreto dei monti, delle foreste, delle spiagge, delle grotte e delle sorgenti» (16): «quei tempi lontanissimi e remoti durante i quali la dimensione femminile poteva esprimere liberamente la propria natura in un mondo incontaminato, vivendo il suo ruolo di donna, e soprattutto di sacerdotessa capace di sentire, di amare, di vivere e di agire nei modi veramente congeniali all’archetipo femminile, simboleggiato appunto dalla Luna, senza alcuna limitazione o prevaricazione» (17).

Soprattutto, Persefone riemerge come Ninfa, dalle profondità delle fonti interiori delle Donne, che come specchi riflettono la Luna, e ritorna come luce fulgida di Luna che nei loro occhi come specchi si riflette a illuminare l’oscurità del morto Mondo Vuoto. È come il crescere della Luna da nuova a piena. È la luce della Madre che torna a splendere negli occhi delle Donne, annunciando il ritorno della Dèa, che reca con sé una possibilità di trasformazione, di rigenerazione, di rinascita, sostenuta dai cammini delle donne che percepiscono la voce dell’antica Madre, e con la loro vita la testimoniano, con le loro arti la trasmettono: «anche se l’originaria concezione della sacralità femminile non fosse oggettivamente documentabile né dimostrabile, forse alcune rare persone, al di là di ciò che oggi la gran maggioranza degli individui ritiene certo ed assodato, potrebbero sentire ed intuire, fin quasi ad averne la certezza, che vi furono dei tempi antichissimi in cui la dimensione femminile ebbe un importantissimo ruolo sociale ed etico, che potrebbe essere definito benefico, armonizzante e foriero di gioia, di fortuna e di prosperità per tutta la società» (18). Tuttavia questo non è il tentativo di ritornare ad un passato arcaico, storico o mitico che sia, bensì di trasformare la coscienza e di trasmettere possibilità, come scrisse Charlene Spretnak, nonché d’immaginare un mondo diverso, una vita diversa da quella che il Mondo Vuoto impone, o forse d’incamminarsi verso quello che Mary Daly ha definito «Futuro Arcaico».


Note:

1. Stanca e accaldata dopo la caccia, Artemide si rifugiava in una valle a lei sacra, folta di pini e di cipressi, «nei cui recessi […] si trovava un antro incontaminato dall’uomo», che «la natura col suo estro» aveva «reso simile a un’opera d’arte: con pomice viva e tufo leggero aveva innalzato un arco naturale». E là, «sulla destra in mille riflessi frusciava una fonte d’acque limpide, col taglio della sua fessura incorniciato di margini erbosi» (Ovidio, «Metamorfosi», III, 155-162). Là, mentre tutta nuda si lavava con l’aiuto delle Ninfe nude, Artemide fu scoperta e spiata dal cacciatore Atteone, il quale, giunto «alla grotta irrorata dalla fonte» per caso, condottovi dal destino mentre vagava per un bosco ignoto, come Hylas, a differenza di questi non assistette alla spontanea manifestazione della Dèa, o delle sue Ninfe, bensì indugiò a guardarla furtivamente allorché ella non voleva mostrarsi, e non la guardò con adorazione, bensì con sguardo bramoso e concupiscente. E così nello spiarla fu come il profeta che forzasse la visione, o il poeta che forzasse l’ispirazione, o lo stupratore che entrasse nella donna con la forza anziché essere accolto in lei con dono d’amore. E infatti, spinto dal desiderio, il cacciatore entrò nella grotta sacra. Poiché prima del bagno aveva affidato alla sua Ninfa scudiera il giavellotto, la faretra e l’arco allentato, Artemide lo punì trasformandolo in cervo, così che fu inseguito dai suoi stessi cani e sbranato «sotto il simulacro di un cervo». Soltanto quando la sua vita si spense per le innumerevoli ferite, l’ira della Dèa bellicosa fu placata, giacché il cacciatore, nel segreto della foresta, nello specchio della fonte, nella segreta compagnia femminile delle sue bellissime ancelle, l’aveva vista nella sua nudità, che non era soltanto la nudità del suo corpo flessuoso e madido, bensì la nudità di un convegno sacro, di un mistero muliebre e di un’assoluta autonomia generatrice femminile, che mai avrebbero dovuto essere profanati da occhi maschili. «Numerosi sono infatti i racconti mitologici che narrano della rovina e della morte violenta in cui incorsero certi uomini che ebbero curiosità di questo tipo o che per qualche motivo si avvicinarono o cercarono di svelare il segreto, per essi del resto sostanzialmente inconoscibile, dei misteri della Dea bianca» (d’Aries, «Alla ricerca della Luna», p. 49, e v. p. 67, nota 5, con riferimento al mito di Atteone).

2. Cette Artémis, fuyant le désir mâle, ô vierges,
Tourna vers le lointain du sud ses yeux lassés.
Et ses pieds fugitifs illuminaient les berges,
Foulant avec dégoût les couples enlacés.

Ses longs rayons aigus perçaient l’ombre des rives
Et dardaient les venins, les terreurs et les maux,
Sur les hommes en rut et les femmes passives,
Luttant et se mêlant comme les animaux.

Car son orgueil se plaît aux jeux chastes et rudes
De la course à travers le ravin et le pré ;
Elle cherche l’effroi des larges solitudes
Où nul souffle mortel ne trouble l’air sacré.

(Renée Vivien, «Cette Artémis, fuyant…», in «Les Kitharèdes» (1904), in «Poèmes de Renée Vivien», Vol. II, p. 12.)

3. 16. d’Ariès, «Alla ricerca della Luna», p. 57.

4. Esiodo, «Catalogo delle donne», 50.

5. «The myth
Explain who may! Let all else go, I keep
--As of a ruin just a monolith--
Thus much, one verse of five words, each a boon:
Arcadia, night, a cloud, Pan, and the moon»
(Browning, «Pan e Luna», p. 5).

6. «Munere sic niveo lanae, si credere dignum est,
Pan deus Arcadiae captam te, Luna, fefellit
in nemora alta vocans; nec tu aspernata vocantem» (Virgilio, «Georgiche», III, 391-393).

7. Kerenyi, I, p. 39.

8. Ibid., p. 123.

9. «Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
iam novva progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrae primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta, fave, Lucina: tuus iam regnat Apollo»
(Virgilio, «Bucoliche», IV, 4-10).

10. «“Virgo” nanque vocabatur iustitia, quam etiam “Astream” vocabant». Dante, «Monarchia», I, xi.

11. Ovidio, «Metamorfosi», I, 127-150.

12. Otto, «Gli dèi della Grecia», p. 87.

13. Virgilio, «Bucoliche», IV, 4-10.

14. Gimbutas, p. 321 (mia traduzione).

15. d’Ariès, «La voce dell’antica Madre», p. 37.

16. Ibid., p. 25.

17. d’Ariès, «Alla ricerca della Luna», p. 14.

18. d’Ariès, «Alla ricerca della Luna», pp. 15-16.


Fonti

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«Alpheios», «Theoi Greek Mythology», <http://www.theoi.com/Potamos/PotamosAlpheios.html>

«Arethousa», «Theoi Greek Mythology», <http://www.theoi.com/Nymphe/NympheArethousa.html>

«Atalanta», «Theoi Greek Mythology», <http://www.theoi.com/Heroine/Atalanta.html>

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Browning, Robert, «Pan e Luna» (nota introduttiva e traduzione a cura di Alessandro Zabini), «Labrys», Anno IV, N. 14, Reggio Emilia, Beltane-Litha 2009, pp. 3-5.

Carcopino, Jerome, «Virgilio e il mistero della IV Egloga», Roma, edizioni dell’Altana, 2001, pp. 98-101.

Cicerone, «La natura divina», Milano, BUR, 1998, II, 42, 110 e 63, 159.

Dante, «Monarchia», in «Tutte le opere», Roma, Newton Compton, 1993.

d’Ariès, Ada, «La voce dell’antica Madre», Milano, Edizioni della Terra di Mezzo, 2006.

d’Ariès, Ada, «Alla ricerca della Luna», Milano, edizioni della Terra di Mezzo, 2001.

Davies, Corinne, «Two of Elizabeth Barrett Browning’s Pan Poems and Their After-Life in Robert Browning’s “Pan and Luna”», «Victorian Poetry», Vol. 44, N. 4, Winter 2006, pp. 561-569.

Del Ponte, Renato, «Dèi e miti italici: archetipi e forme della sacralità romano-italica», Genova, ECIG, 1985.

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